Racconti

Amarcord 2012: 3° classificato. Quel bambino che Gioiva

Di Daniele Ario pubblicato il 11/03/12

 Se voglio capire dov’è nata dentro di me questa grande passione, devo lasciar viaggiare i ricordi, e tentare di risalire all’origine di tutte le mie “stagioni” da pescatore. E così, risalendo a ritroso, mi torna in mente com’è stato il mio approccio alla tecnica di pesca che oggi monopolizza le mie uscite e mi coinvolge a livello associativo: Il ledgering. Mi ha conquistato subito. E’ bastato un dvd di Roberto Ripamonti, un sito (www.ledgering.net)  capitanato dal grande Sabino Civita e un forum,  lo stesso dov’è nata l’Associazione di cui oggi faccio parte:  LBF ITALIA.

Se devo pensare a quell’inizio, nel 2005, mi rendo conto di quanto sono importanti, nella vita da pescatore di ognuno di noi, questi personaggi  trascinatori, i “campioni di pesca & vita” di cui narrava anche Mario Albertarelli.  Non posso non pensare a Nando Carnevale, che mi conosceva appena, ma di fronte alle mie domande da neofita, mi inviò gratuitamente un dvd realizzato da lui, con tutta una serie di piccoli accorgimenti, che mi incuriosirono e mi permisero di apprendere le basi di una tecnica molto redditizia. Penso a Ferruccio Scanzio, e all’emozione di incontrarlo per la prima volta e vederlo  pescare a ledgering nella mia Torino, all’ex campo gara de “i vigili”. Lo stesso con cui, non molto tempo dopo, fondammo una delle prime sezioni periferiche: Lbf Piemonte. Un altro dei miei campioni, conosciuto qualche anno dopo, è stato sicuramente un altro piemontese, Claudio Terzuolo, uno dei più inseparabili compagni di pesca da quel giorno in poi.

Ma questa è storia più recente. Torno ancora indietro e mi rivedo nei torrentelli della mia zona con una canna fissa e un galleggiante, che gran salto fu passare dalle canne in fibra di vetro alla prima canna in carbonio! Questo pezzo di vita mi vedeva sempre in compagnia di mio zio Mauro e di mio cugino, Simone, anch’esso compagno fedele da lì in poi, di molte pescate memorabili.

E che divertimento  nello scoprire quanto era bello utilizzare la canna fissa anche per tentare le scaltre trote della Val Sangone. Che bello era poi, da neopatentato, partire da soli, con la propria auto, arrivare sul posto, infilarsi gli stivali a coscia lunga e partire risalendo questi torrenti di montagna, solo con l’essenziale, tutto quello che stava nel gilet mimetico. Che senso di libertà, mi sembra ancora di sentire i profumi delle piante e della Natura dopo quel grosso temporale che mi vide chiuso in macchina per più di un’ora. Ma come ne valse la pena aspettare, una trota a giro e tutte Fario sopra i 25 cm.

Prima ancora, per diversi anni la pesca era un fuoco sotto la cenere, fatta di rare uscite con mio padre, che portava me e i miei amici in posti a noi irraggiungibili, senza patente e senza macchina. E mi ricordo di Faule e del cavedano di due kg preso da Bobo, o della scarrellata di canne bolognesi alla confluenza tra il Po e la Stura, o di quei due black bass presi pescando a fondo col vermone nella cava di San Gillio.  Che profumo quella pastura che impastavamo, confidando che fosse il segreto della “pescata miracolosa”.  

In quegli anni, tutto era “da grande” e ogni cosa aveva un sapore di novità e mistero nello stesso tempo, così in assenza di campioni cui affidarsi, io e il mio amico Steo, avevamo deciso di documentarci, di metterci proprio a studiare tutto quello che c’era da imparare, e mi ricordo che iniziammo ad acquistare coi pochi soldi delle nostre misere paghette, un’enciclopedia ad uscite settimanali, l’Arte della Pesca, con cui potevamo sognare ad occhi aperti tecniche, attrezzature e luoghi a noi sconosciuti.

Che bello poi condividere col proprio padre dei momenti  tutti nostri, le levatacce quando era ancora buio, o quando mi accompagnò a comprare il mio primo kit “usato” da un pescatore che aveva deciso di cambiare tutta l’attrezzatura , o essere lì con lui che mi spiega come montare una “camolera”, o come farla lavorare degnamente in acqua, quale “temolino” scegliere in base alla corrente,  come tenere la lenza in tensione col dito per sentire le mangiate del pesce  e poi come recuperare un pesce più grosso del solito.     E che barbi, già allora. Ed ecco che vi ho fatto conoscere un altro dei miei “campioni”.  

Ma la mia palestra principale, quella a cui dedico questo scritto, fu per anni la cavetta  dietro casa, anche detta “la buca” o “la tampa”, che dopo anni di bracconaggio da parte di selvaggi  “alloctoni” è oggi ridotta soltanto a far da specchio al cielo.  

Mi ci portarono per la prima volta mio padre e mio zio. Pur essendo una ex cava di estrazione ghiaia, tutto sommato piccolina, rettangolare, di un centinaio di metri per una cinquantina, ai miei occhi di bambino  sembrò un lago enorme.  Le prime volte mi sedevo lì di fianco a loro, quando andavamo a trovare i loro amici pescatori o, molto più spesso, curiosavo in giro, recuperando persici sole, anche detti Orologi, sotto riva, con un amo di recupero e un filo di un metro attaccato ad un bastone di legno. Ma talmente mi divertivo, che me lo ricordo ancora come se fosse ieri pomeriggio. Poi crescendo, ho iniziato ad andarci da solo in bicicletta o con i miei amici, nei pomeriggi interminabili di una Provincia in cui, pur essendo gli anni 80 inoltrati, non c’era proprio nulla.    Mi vengono in mente dei  grandi-(qui intesi come adulti)-pescatori che mi dimostrarono che pesci ce n’erano eccome lì dentro, di ben altre razze e misure oltre ai persici sole.  Cercavo di apprendere da loro e dai consigli del negoziante di fiducia di quel periodo, Caglieris, situato in fondo al viale del  paese, come cercare di catturare anche io quelle ben più ambite prede. Tentavo  di applicare quello che mi aveva detto uno di quei pescatori  “mettiti lì in silenzio e osserva tutto quello che faccio, devi cercare di imparare tutti i trucchi del mestiere”.

Così a piccoli passi  sono cresciuto tra nasse di alborelle e “melighe”, i primi cavedani  o “quaiass”, coraggiose scardole o “scavarde”,  la prima piccola carpa col “granoturco” e poi finalmente il mio magic moment, la cattura di cui mi vantai a casa per un sacco di tempo, un Persico Reale di ben 45 cm, con delle pinne rosse enormi e meravigliose. 

Vorrei  tornare per un attimo bambino per rivivere di nuovo quel momento, e tutti quelli descritti fin qui, anche se solo il fatto di ripercorrerli con la memoria e cercare di descriverli, è un po’ come vederseli passare davanti in un film. Il mio personalissimo film che mi porterò sempre nel cuore.

Andare a pesca oggi, anche se è cambiato tutto, mi riserva ancora le stesse emozioni, e ci sono momenti in cui grazie a questo sport meraviglioso, ritorno ad essere bambino, quello stesso bambino che gioiva, cercava di imparare e ci provava, in attesa dell’abboccata di quel pesce misterioso e meraviglioso, che forse, inseguo ancora oggi. 


FacebookTwitterGoogle+Invia per email

Collabora


Ti potrebbero interessare anche: