Racconti

Amarcord: Il mio torrente

Di Simone Racano pubblicato il 17/02/10

 

IL MIO TORRENTE

Quel torrente alla fine non era niente di speciale. Per lo meno non lo era più. Si era ridotto ad un rivolo d'acqua che a tratti si perdeva tra i sassi e i pioppi che crescevano lungo il corso. La sua vita era effimera, prendeva forza e vigore in inverno, quando le piogge alimentavano le sorgenti sulle montagne, poi in estate si arrendeva al sole che martellava tutto il giorno e rubava la poca acqua che ormai scorreva. Nelle piccole pozzanghere che rimanevano riuscivano a trovare asilo solo le rane e qualche raro granchio. Ormai di pesci non se ne vedevano più da una quindicina di anni. I tempi erano cambiati. Le piogge e, soprattutto, le nevicate erano diventate meno abbondanti, e i cuori dei monti non riuscivano ad alimentare insieme i corsi d'acqua e gli acquedotti costruiti negli anni ottanta. Era da più di un mese e mezzo che Nazzareno tornava a sedersi su quel masso di calcare, sceso giù dalla parete delle colline vicine chissà quanto tempo fa. Se lo ricordava piazzato nello stesso posto fin da quando era un bambino. Neanche le piene del suo amato torrente, che avevano comunque lasciato evidenti incisioni alla sua base, erano riuscite a spostarlo dal posto occupato. Era lì immobile, quasi eterno, come un vecchio nemico che puntualmente sfidava la forza e l'impeto del corso d'acqua che gli scavava i piedi. Che gli aveva scavato i piedi. Adesso anche quel masso sembrava soffrire la vecchiaia, come il suo vecchio rivale. Era ingiallito e coperto di muschio fin quasi alla base, proprio dove una volta veniva lambito dalle acque e dove ora crescevano i rovi. Nazzareno ricordò di quando andava a pescare al suo torrente, vicino a quel masso, poco distante da una piccola cascata a valle creata da uno sbarramento. Ricordava che quello sbarramento lo aveva costruito suo padre, un muratore, ed era stato fatto per poter garantire alle persone che coltivavano ortaggi là vicino l'acqua per annaffiare le piante. E in quel tempo neanche ce n'era bisogno, perché l'acqua era sempre abbondante. Dietro quello sbarramento, dove si formava una pozza lunga quasi quattro metri e profonda un metro e mezzo, si annidavano i più grossi cavedani e le anguille. Nazzareno adorava quei cavedani. Era già difficile prenderli quando le acque erano scure, quando invece erano limpide diventava uno spettacolo vedere come riuscivano a fregare il pescatore. Lui credeva che quelli fossero i pesci più intelligenti che Dio avesse mai creato. Li vedeva uscire dalle loro tane sotto gli arbusti sommersi, si avvicinavano lentamente alla lenza, le giravano intorno e la squadravano in ogni suo minimo dettaglio. Giravano ancora in tondo, giravano e giravano, poi scomparivano in un attimo per una pausa di riflessione, e quando tornavano si infilavano in bocca l'esca, rubavano il lombrico in chissà quale modo e risputavano l'amo tutto pulito e brillante. Capitavano delle volte in cui qualcuno sbagliava la manovra e si ritrovava l'amo piantato nella gola, ma erano casi davvero rari. Quando arrivava l'estate, che le acque erano meno turbolente e i grilli iniziavano a saltellare come dannati tra l'erba e i campi mietuti, la pesca al cavedano diventava una meraviglia. Nazzareno preparava la sua canna fissa solo con filo e amo, senza aggiungere altro. Innescava i grilli e pescava alla deriva, là dove le piccole correnti portavano l'acqua nelle pozze più calme. I pesci più piccoli saltavano come pazzi per avventarsi sulle esche che si muovevano sulla superficie. I più grandi invece, che questa volta si lasciano comandare più dall'ingordigia che dall'intelligenza, si limitavano a spalancare la bocca sotto il grillo e ad ingoiarlo, rimanendo puntualmente allamati. Quelle estive erano le più belle pescate che Nazzareno ricordava. Bellissimi erano però anche i periodi in cui pioveva forte e il torrente portava valanghe di acqua torbida. Erano quelli i momenti in cui si andava letteralmente a caccia di anguille e capitoni. Non li pescava con la solita canna da pesca, ma con un metodo alquanto vecchio insegnatogli da suo nonno. Prendeva un lungo bastone di legno, che fosse abbastanza robusto ma anche flessibile, e vi legava uno spago spesso. Allo spago attaccava una pietra e un grosso amo che riempiva di lombrichi e pezzi di interiora di pollo. Non era un'esca molto bella da vedere, ma alle anguille piaceva davvero tantissimo. E a Nazzareno piacevano tantissimo le anguille. Queste però erano difficili da prendere. Appena si sentiva anche un minimo strattone bisognava tirare con forza e far schizzare rapidamente il pesce fuori dall'acqua. Se l'anguilla si accorgeva di essere stata fregata allora si attorcigliava su qualche ramo sommerso e l'unica cosa che si poteva fare era tagliare la lenza e mettersi l'anima in pace. Però era bello lo stesso. Quelli erano tempi bellissimi. Ora insieme al torrente stavano morendo anche tutte le campagne intorno. Erano state tutte abbandonate. I loro vecchi padroni erano passati a miglior vita, lasciando gli orti in mano alle erbe e agli arbusti. Nazzareno era l'ultimo rimasto, ma anche a lui non rimaneva ormai molto. Aveva passato una vita bellissima. Di difficoltà ne aveva avute, e non poche, ma alla fine aveva sempre riottenuto tutto ciò che aveva dato. Era una persona buona con tutti, dal più stretto parente al tizio appena conosciuto, e ogni suo buon gesto era stato in qualche modo sempre ricambiato. Aveva avuto una bellissima famiglia. Si era sposato a ventidue anni con Antonietta, una ragazza sua coetanea che aveva amato da sempre e che aveva sempre ricambiato il suo amore. Avevano avuto tre figli, Elena, Teresa e Mario. Antonietta però morì mentre stava dando alla luce quest'ultimo, a trentadue anni. Lei era sempre stata una ragazza magrolina, non molto alta e con il volto che ricordava sempre quello di una ragazzina di quattordici anni. Il suo fisico però non riusciva a sopportare i parti. Erano stati molto difficili i primi due, e il terzo le fu fatale. E negli anni sessanta, quando ancora nei paesini le persone preferivano rivolgersi più ai maghi che ai medici per i propri problemi di salute, nessuno riuscì a salvare la vita della moglie di Nazzareno. A consolarlo rimaneva solo il suo torrente. In quel ettaro e mezzo che aveva vicino al corso d'acqua crebbe i suoi figli, insegnando loro l'amore per la terra e per il suo adorato torrente. Insegnò loro a pescare e ad aver rispetto di quel piccolo mondo così immensamente importante. Poi i figli crebbero e andarono via. Tutti si trasferirono in città. Elena divenne una pediatra, Teresa si sposò con un operaio di una grossa fabbrica e Mario realizzò il suo sogno di diventare vigile del fuoco. Lui non volle seguire i suoi figli. Rimase vicino al suo mondo che stava cambiato, che era stato minato del cuore e che stava rapidamente ed inesorabilmente decadendo. Quel mondo stava morendo, e con esso anche Nazzareno. Il tumore al fegato gli fu diagnosticato un proprio un mese e mezzo prima, quando ormai aveva iniziato ad impossessarsi di tutti i suoi organi. Il medico gli disse chiaramente che ormai sarebbe stato inutile qualsiasi intervento. Da allora aveva iniziato ad andare tutte le mattine al torrente. Sempre alle sei, alla stessa ora in cui l'aveva visto quella prima e unica volta. Allora aveva diciassette anni. Era un venerdì di aprile, un paio di giorni prima delle Palme. Era lo stesso giorno in cui avrebbe poi dato il primo breve e intenso bacio a quella che sarebbe diventata la sua Antonietta. Era uscito alle cinque di casa, ovviamente armato di canna da pesca. Ufficialmente era andato a pascolare le pecore e le capre, ma a loro potevano badare benissimo Zorro, un grosso pastore tedesco dal pelo lungo, e Barabba, un enorme pastore abruzzese che avrebbe messo fuori gioco un lupo senza troppe difficoltà. L'acqua del torrente quella mattina era limpida come uno specchio. Su di essa a malapena si riflettevano le foglie degli alberi che crescevano sulle sue sponde. In quell'anno l'acqua passava proprio sotto la grande roccia, e aveva creato una buca profonda poco più di un metro. Nazzareno si era messo a pescare un paio di metri più a monte, vicino dei cespugli, per evitare di essere troppo visibile. Non dovette aspettare troppo dopo il primo lancio, e subito un colpo energico e deciso scosse la sua canna. Era qualcosa di grosso, che stava rintanato proprio sotto la pietra, che strattonava e si dimenava con un'energia incredibile. Nazzareno vide una sagoma bianca e lucentissima che ogni tanto piroettava tra le acque cristalline e poi tentava di tornare sotto il masso. Il ragazzo rimase a lottare con quel pesce per un quarto d'ora, pensando più volte che il filo sarebbe ceduto, anzi che sarebbe ceduta la stessa canna. Poi riusci a tirarlo fuori, facendolo delicatamente arenare vicino la riva. Era una trota, lunga più di mezzo metro, bianca come un marmo e costellata di puntini rossi sanguigni. Era la prima che Nazzareno catturava, e per quello che ne sapeva non c'erano mai state trote nella sua parte di torrente. Su alle sorgenti, a una decina di chilometri verso i monti, catturare questi meravigliosi salmonidi non era raro, ma dove si trovava lui, a meno di un chilometro dal punto in cui il torrente si buttava nel fiume, una trota era un evento più unico che raro. La slamò subito e istintivamente pensò di pulirla e portarla subito a casa, per far vedere a tutti il grande trofeo di quella mattinata. Poi la tenne per le mani e la fissò. Il pesce non si dimenava più. Boccheggiava lentamente e insieme muoveva le branchie. Aveva però l'espressione di un avversario che continuava a mantenere una fiera dignità anche dopo un'estenuante battaglia finita con la sconfitta. Era meravigliosa. Nazzareno era incantato dallo sguardo e dalla livrea di quel pesce, e delicatamente la rimmerse in acqua. La trota rimase per un po' immobile tra le sue mani, poi con dei rapidi colpi di coda svanì tra la corrente, verso la roccia dalla quale era uscita fuori. Fu in quel momento che Nazzareno lo vide. Mentre alzava lo sguardo scorse qualcuno in piedi, sopra la roccia. Sembrava più la sagoma di una persona che una persona vera. Quasi come un fantasma, ma definirlo tale sarebbe stato sbagliato. Era qualcosa, o qualcuno, di superiore, che stava in piedi sul masso, fiero, e fissava il ragazzo. Aveva una barba riccia e bianca, forse bianca, che gli nascondeva gran parte del viso, ed era coperto da un lungo mantello che ogni tanto sembrava lanciare qualche riflesso rosso. Nazzareno rimase a fissare quell'entità a bocca aperta e con gli occhi sgranati, fino a quando qualche istante dopo non la vide svanire lentamente, come se stesse evaporando nella brezza che in quel momento si stava alzando. Quella fu la prima e unica volta che lo vide. Sperò tantissime altre volte di rincontrare quell'essere, lo cercò, voleva parlargli, o almeno voleva semplicemente fissarlo ancora e rimanere incantato, ma non ci riuscì. Tuttavia, sapeva benissimo che un giorno l'avrebbe rivisto. E quel giorno arrivò, quell'ultimo giorno che si trovò vicino al suo torrente, seduto sulla sua roccia, a ripensare a tutti i bellissimi momenti della sua vita. Verso le sette di mattina poi, mentre si avviava per tornare a casa, si voltò un attimo verso il masso e lo rivide. Era proprio lui, ma non sembrava avere più l'aria imponente della prima volta. Il suo volto era più vecchio, la barba lunga e meno curata, il mantello era lacero e scolorito. Tuttavia era tornato, e non era solo. Accanto a lui c'era una ragazzina, anzi una donna con il volto di una ragazzina, dai lunghi capelli rossi legati dietro la testa, che sorrideva e porgeva la mano verso Nazzareno. L'uomo rimase un attimo a fissare quelle due ombre che lentamente prendevano corpo, e riconobbe in quella donna la sua Antonietta. Anche quell'altro essere porse la mano, e lui andò con loro. Poco dopo, una grossa trota bianca guizzò nel torrente e corse via verso i monti.

 


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