Racconti

Amarcord primo classificato 2012:

Di carlo benaglia pubblicato il 28/02/12


Gli alberi, al di là del freddo vetro della finestra dell’ufficio, hanno rami spogli, secchi e contorti come le dita di un vecchio, tese ad indicare un cielo grigio e pesante ricamato da nubi di piombo.
Le foglie ambrate di un autunno che, come sempre più spesso accade, non s’è del tutto manifestato, alla stessa velocità con cui sono cadute, sono state spazzate via per lasciare in bella mostra l’asettico lastricato della piazzetta. Un gelo crudele si sta impadronendo di giornate e nottate, dei campi seminati e dei fossi asciutti, degli argini e delle acque dei fiumi.
Stretto, quasi intrappolato, tra il bagliore sintetico del monitor e milioni di clic isterici sulla tastiera, il pensiero cerca di fuggire, mette in atto una sorta di incontrollabile meccanismo di autodifesa. Il poco poetico soffio caldo del ventilconvettore è come un tiepido ventre materno che, dopo nove mesi, inizia a rivelarsi inevitabilmente troppo stretto per contenere il futuro nascituro.
La mente ha un potere incontrollabile e smisurato, per quanto ci si possa sforzare di controllarlo, finisce sempre per essere lui a controllare o influenzare noi stessi.
La battaglia è iniziata. I nemici sono il grigiore dell’inverno e la routine quotidiana, l’astinenza forzata dall’elemento liquido e dai suoi viscidi abitanti. L’arma per sconfiggerli messa a punto dal cervello consta di una onorevole e più che giustificabile “fuga”.
Come gli aironi che abitano il fiume, il pensiero dispiega le ali e spicca il volo verso tempi migliori, costruendo un futuro ipotetico attraverso l’impiego di milioni di mattoncini provenienti dal passato, consolidando il tutto con una malta romantica e nostalgica che ha l’odore umido del ricordo.
Così la mente si dissocia dal corpo ed inizia a farti credere di essere in un luogo ben preciso, o in una moltitudine indefinita di essi. Inizia inesorabile a pianificare il futuro, attingendo alla fonte delle esperienze già vissute. In un stato di ansia vorticosa, speranze e progetti si fondono coi ricordi, e se l’obbiettivo non è del tutto chiaro o prestabilito, finisce che questi ultimi prendono il sopravvento.
Il cervello finisce per riprendere possesso di quel corpo che aveva abbandonato, lo domina e lo muove. Sposta la mano che tiene il mouse, comanda le dita e finisce per indurle a fare clic sulle mal celate cartelle contenenti centinaia di ricordi sotto forma di foto.
Non sono album dei ricordi come quelli dei genitori costituiti da immaginette dieci per quindici impresse su carta fotografica lucida e qualche volta sbiadita. Sono album fatti di impalpabili e luminosi pixel, tanto gelidi e distaccati, quanto in grado di scaldare il cuore di quelli per cui rappresentano il ricordo di un’esperienza vissuta.
Non si tratta di ritratti di facce sorridenti su una spiaggia della Rimini degli anni settanta, o di bimbi che soffiano sulle candeline della torta di un compleanno di trent’anni fa. Si tratta di ricordi particolari, di immagini cui solo la mente di un ammalato terminale può attribuire valore. La malattia si chiama pescare.
Uno schedario organizzato con la meticolosità propria delle agenzie di spionaggio, dei servizi segreti, fatto per catalogare ricordi. Un contenitore virtuale per mettere sotto chiave e conservare immagini che sono emozioni vissute sulla propria pelle.
Non serve andare indietro nel tempo di decenni per provare un’emozione. Anzi, posso senza dubbio affermare che i miei migliori ricordi sono tutti piuttosto recenti.
Le cartelle scorrono sotto agli occhi ed aprendole sembra di rivivere l’avventura che le immagini contenute in esse documentano.
Un clic e mi ritrovo catapultato sulle sponde dell’amato Fiume Po. E’ estate e l’afa soffocante è solo lievemente mitigata dall’ombra di antichi pioppi. Pantaloncini corti, maglietta ed occhiali da sole sembrano lontani anni luce, eppure, stando a quanto sostiene il calendario appeso alla parete, è passato solo qualche mese. Poco importa, nella mia mente sembra ieri e sembrerà ieri anche tra cinque, dieci o , se la sorte lo vorrà, tra cinquant’anni. I volti, il mio e quello dei miei compagni di pesca, sono solcati da gocce di sudore, le fronti e le guance arrossate dal riverbero del sole sull’acqua. Le nostre mani pongono all’attenzione dell’obbiettivo, uno dopo l’atro, una serie invidiabile di barbi dalla taglia assolutamente inusuale per il periodo estivo. Pesci potenti, valorosi avversari, da mostrare orgogliosi, ma senza ostentazione e da maneggiare con cura. Come si farebbe con qualcosa di prezioso.
Un paio di immagini mi rammentano come abbiano tutti fatto ritorno all’elemento liquido cui appartengono. Sarà la sensazione, sarà un pizzico di umanità che s’è impossessata dall’apparecchiatura fotografica, ma quelle foto sono le più belle. Sembra quasi che l’ottica abbia voluto cogliere la valenza simbolica insista nel gesto del rilascio dando il meglio sé.
L’estate che deve venire, però, è ancora lontana. Guardare al passato per pianificare il futuro mi induce inevitabilmente a riflettere sul cosa possano riservarmi la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera. La prima risposta, fin troppo razionale, è: una bella allergia a pollini e graminacee. Poi, per fortuna, la fantasia riprende a galoppare e per farlo si serve di nuove immagini ed ulteriori ricordi.
Apro un’altra cartella contenente foto. Questa volta sono sulle sponde del lago d’Endine. La compagnia è quella apprezzata ed irrinunciabile dei soliti amici. La nostra permanenza è arricchita ed allietata, in questo caso, da ulteriori compari di vecchia data che si alternano in una sorta di staffetta, condividendo con noi esche, catture, cibo, tende, chiacchiere, pensieri e sensazioni.
Rivivo le emozioni delle notti trascorse in tenda confortato dall’avvolgente tempore del sacco a pelo. Mi pare d’essere lì, all’alba, mentre sorseggio una tazza di thè bollente fatto con un fornellino da campo, mentre osservo le nuvole basse, bianche e paffute che avvolgono i monti ed incorniciano il lago in un’atmosfera surreale. Di lì a poco, i monti, manderanno i loro venti per scacciarle via lasciando che sia il sole a risvegliare la natura.
Rivedo il viso di tutti coloro i quali hanno voluto omaggiarmi della loro presenza, facendo sì che una sessione di pesca potesse diventare un lavoro di squadra ed un’occasione di condivisione. Poche catture, davvero sudate, posano per le foto di rito assieme al pescatore che ha avuto l’onore di poterle combattere. In cuor suo, chi posa col pesce, chi assiste alla scena e chi sta dietro all’obbiettivo, sa che quell’animale provvisto di pinne, tanto desiderato e violentemente estirpato dal suo ambiente, non appartiene a nessuno se non alla natura, ma costituisce, al contempo, un successo ed un premio per tutti i presenti. Le poderose carpe dai riflessi dorati o l’ambita tinca, scura e verde come gli erbai sommersi da cui proviene, sono le ciliegine che guariscono una torta farcita di passione, sacrificio, capacità, fortuna ed affiatamento.
Gli stivali, la tenda, la brandina e tutto il resto dell’attrezzatura cha a fatica si riescono a caricare su di un’ automobile di discrete dimensioni, oggi riposano, in attesa di ripartire alla volta di una nuova avventura.
Forse, spero, nuove tinche ci attendono golose pronte per ingoiare i nostri inneschi.
E’ così che dai ricordi si passa nuovamente ai progetti, in un continuo ribalzare tra passato e futuro. Un pizzico di raziocino mi induce a ritenere prematuro (ma non troppo) il pensare sin da ora ad organizzare una nuova spedizione primaverile.
Chiudo con le foto dell’avventura ad Endine e già mi ritrovo sprofondato in altre immagini. Queste mi ritraggono sulle rive del “Fiume Azzurro”. Sullo sfondo non ci sono boschi o montagne, argini o ghiareti, ma un ponte coperto da cartolina ed i tetti di una città meravigliosa che è un tutt’uno con le acque cristalline che la attraversano. Linfe trasparenti che hanno finito per stregare gli abitanti di quella città, rendendoli animali fluviali, facendone uomini migliori. Perlomeno quelli che ho la fortuna di conoscere da tanti anni.
In quel contesto scenografico, non senza difficoltà, non senza l’aiuto ed i consigli di chi, oltre a conoscere il fiume, ne conosce anche i segreti ed i fondali, porto a guadino e vengo ritratto con pesci stupendi, tutti appartenenti a specie diverse, tutti apparentemente affetti da una conclamata forma di  gigantismo. La tecnicità dell’approccio, la capillarità delle lenze impiegate, l’inusuale dimensione ed i prorompenti tubercoli nuziali che ne adornano il capo, possono rendere affascinante persino la tanto bistrattata abramide.
Mentre rivivo quegli attimi, Penso che devo tornare a far vista ai miei amici pavesi ed al loro fiume quanto prima.
Un ultimo clic sul tasto sinistro del mouse per rivedere cosa succedeva un anno fa, proprio in questo periodo. Le foto sono poche, in verità. Dal colore dell’acqua e da quello del cielo si deduce che fa un gran freddo. Il velo di neve che imbianca le sponde lo conferma in maniera insindacabile. Il fiume, in questo caso, non è maschio, ma è una signora. Mi ospita e tante volte mi ha ospitato, ma non mi appartiene. Solo ad un grande pescatore che abita sulle sue sponde, per meriti conquistati sul campo e  per anzianità di servizio, credo spetti l’onore di poterla definire “la mia Adda”. Per fortuna sono un raccomandato, quel grande uomo lo conosco bene ed ogni tanto mi concede di buon grado di giocare con la sua amata.
In quei quadretti impressionisti spruzzati di tempera bianca, la cornice è costituita dalle mura antiche che proteggevano un tempo la cittadina di Pizzighettone.
I miei occhi scrutano le fotografie. Ci sono io,  in un paio di pose plastiche, mentre recupero la lenza dalle gelide e turbinose linfe del fiume. Qualche scatto ritrae i soliti compagni di avventure.
Qualcun altro ci ritrae tutti, anche quelli che, sfortunatamente, vedo troppo poco. Siamo stretti, intirizziti, attorno ad un panettone e ad una bottiglia di spumante. L’ambientazione non è un bar, e nemmeno un ristorante, ma l’avara Adda. Con i suoi salici, la sua erba ghiacciata e le sue papere.
Non ci sono pesci in queste istantanee di vita vissuta. Non ce ne sono perchè non ne abbiamo catturati. Ironicamente, ad un anno di distanza, penso che forse stavano festeggiando il Natale pure loro e non avevano tempo per curarsi delle nostre esche.
Pazienza. In certe occasioni non sono le catture a fare la differenza. La pesca non è riconducibile al mero atto di ficcare un amo in bocca ad un pesce e girare la manovella del mulinello fino a guidare il malcapitato dentro a guadino. Alcune volte, l’importante è essere lì, in un preciso istante, lì ed in nessun altro luogo. Ed assaporare l’attimo.
Sono stato fortunato anche senza catture, quel giorno. In riva al fiume c’ero e l’attimo che ho assaporato è scolpito nella mia mente.
Dopo tante foto, dopo tanti ricordi, la mente smette improvvisamente di fantasticare e decide di ritornare alla realtà.
Oltre la finestra dell’ufficio, le tenebre hanno preso il sopravvento troppo presto. Mi attendono ancora un paio d’ore di lavoro, fuori è già notte nonostante non siano nemmeno le diciassette.
Una miriade di ricordi mi hanno tenuto compagnia, tutti diversi, ma in fondo tutti uguali. Posso scordare i dettagli delle tante giornate trascorse a pesca, posso confondere quelle simili tra loro. La vecchiaia finirà per farmi apparire tutti uguali i barbi con cui ho posato in gioventù.
Eppure qualcosa rimane e rimarrà indelebile. Un grande ed unico ricordo immateriale eppure così consistente. Un ricordo fatto di amicizie, volti, sentimenti, passione, gesti, lealtà, divertimento, devozione. Un ricordo che è qualcosa di assai simile all’amore. Un sentimento incommensurabile, e più razionale di quanto non si creda, per tutto ciò che può significare la parola pesca, anche al di là di ciò che significa pescare.


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