Racconti

Amarcord: racconto 3° classificato, "6 gennaio"

Di Massimo Zelli pubblicato il 05/03/11

Prefazione

E’ una pagina relativamente recente dei fatti che ho vissuto. Saltuariamente sento il bisogno di renderli alla carta. Mi piace rileggerli a distanza di anni. A volte, è soltanto un modo per vedere come cambia il mio modo di scrivere, credo, infatti, che la scrittura rifletta il modo di pensare e gli stati d’animo che uno attraversa, o anche, soltanto fasi divise della nostra vita. Altre volte, è solo un modo facile per trarre dei bilanci sulla propria esistenza, senza dover ogni volta fare dei rewind faticosi e spesso, senza alcun risultato. La nostra mente ha una maniera strana di catalogare il tempo che passiamo: a volte nasconde le cose, specie quelle in cui sono coinvolte parti profonde della nostra coscienza, del nostro Io. Per questa ragione, ogni tanto, scrivo.

6 gennaio 2011

Non so quante volte ancora farò questo pezzetto di strada, non ne ho un’idea precisa, tuttavia, posso provare a fare un rapido conto mentre la macchina percorre per la quinta volta in sei giorni lo stesso tratto di autostrada. E’ il 6 di gennaio 2011 e sono a quota cinque uscite, non credo d’aver mai iniziato così bene un anno negli ultimi undici. La campagna veneziana con la sua caligine e quel suo biancore post-sbornia sono in grado da sempre, da quando li conosco, di mostrarmi il lato migliore delle cose, anche quando, a dire il vero, di lati buoni ce ne sono quanti su una lama a doppio taglio. 


Alle 03:00 del mattino metto al letto un giovane amico, si chiama Long John ha dodici anni e dorme in piedi. Si accompagna bene con un buon sigaro di solito, ma io ho solo quelle trenta sigarette e nessuno con cui parlare, in compenso.


Alle 06:00 sto soltanto sudando al letto, senza la minima possibilità di pigliare sonno, il minimo che possa scaturire da una condizione del genere è tornare da Long John e chiedergli che mi porti per mano da Morfeo. Mentre mi avvicino alla dispensa, l'omino della Bialetti mi fa l'occhiolino, Long John resta a dormire questa volta.

Una moka "da sei" senza zucchero mi rimette in sesto e, mentre l'ultima goccia amara di questa nottata mi scende giù per il gargarozzo, ricordo che ieri è avanzato un kilo di cagnotti.


A grandi linee questo è il motivo per il quale anche questa mattina calpesto erba umida piuttosto che la moquette rossa del salottino in centro città nel giorno dell'epifania.

Forse, nel mio inconscio, se avessi potuto decidere, sarei proprio qui dove sono ora. Forse, voglio soltanto convincermi di questo. All’atto pratico le motivazioni sono altre: non ho molto di meglio da fare oggi. In fin dei conti non è andata male, ho “quasi” deciso di essere qui ed è già un buon risultato.

I giorni precedenti non mi hanno dato molto, né come taglia né come numero di catture, tuttavia, le ore per stare da solo sono state molte e questo è bastato a curare il piccolo “male di stagione” che in questo momento mi coglie.

Questa mattina ho una certa frenesia nel voler iniziare. Ho scelto il posto in modo abbastanza accurato, cercandolo tra quelli che non ho mai visto: ho voglia di svecchiare la mia conoscenza del fiume. E’ abbastanza deserto qui: nessuno nel raggio di Km può raggiungermi mentre mi accingo alla mia attività preferita. Il telefono è spento. La prismata è bassa e comoda: << Ma si, dai. Oggi voglio proprio viziarmi, vado a pescare con le gambe a mollo>>.

Metto i waders con la stessa foga con cui m’infilai ben altro tipo di “scafandro” quando fu il momento di diventare uomini qualche tempo fa. E’ buffo, mentre armeggio con gli stivali, che stentano a entrare, mi passano per la mente quel giorno e quella ragazza. E' ben più di un decennio che ho smesso di pensarci. Strani scherzi fa la memoria: quando credi che oramai sia addomesticata e proiettata al futuro, ti colpisce come uno schiaffone resuscitando eventi che in certi momenti sembrano essere completamente avulsi dal contesto che viviamo.

La sua pelle era di un chiaro scintillante sotto la luna: provate ad immaginare una di quelle notti di metà agosto quando non è mai del tutto buio. I sassi del fiume, la sabbia intorno, la schiuma di una cascata: tutto assumeva quel colore chiaro dai riflessi azzurrini. I suoi capelli neri e lunghi sembravano ancora più neri, poggiati sul chiarore del suo corpo... non avevo ancora la patente e anche quella volta c’era di mezzo un fiume.

La vidi per trenta giorni intensissimi. Sembrava che non avessi mai vissuto prima. Le scuole erano chiuse, andavo a pescare tutti i giorni e passavo con lei i pomeriggi e le sere. La salutavo a mezzanotte circa, erano saluti distratti. Quando terminavano i nostri momenti, o stavano per terminare, avevo già la testa proiettata all’ora successiva. Stavo già sistemando le canne e le lenze mentre le davo l’ultimo bacio. Forse avrei dovuto fare l’attore: lei non s’è mai accorta di essere una soltanto delle due cose che mi piacciono.

Nulla è casuale, la complessità della mente umana, a volte, sorprende per la banalità con cui è capace di somatizzare gli stati d’animo e fare collegamenti tra cose apparentemente senza nessun legame. Questo ricordo che ritorna, con una nitidezza che non potevo minimamente immaginare, è lontano dalla mia mente almeno da undici anni. Un evento, cui non penso da undici anni, deve avere necessariamente a che vedere con un altro evento di pari durata. La mia storia con Francesca è durata circa undici anni, mese più mese meno, ed ha avuto termine pochi giorni fa. Ecco da dove venivano fuori quegli undici anni. Adesso lo so.

La riflessione mi strappa un sospiro ma il pugno nello stomaco, che solitamente sussegue, non fa nemmeno in tempo ad arrivare: davanti a me c’è il mio fiume, è impossibile non recepire un po’ della serenità che quel suo avanzare imponente ed eterno porta con sé. E’ una metafora all’imperturbabilità: quanto mi piacerebbe essere quel fiume... per oggi, comunque, toccherà che mi accontenti solo di pescare.

Non conosco il posto, la voglia di stare solo mi ha portato in mezzo la campagna: 500 metri sui sentieri, tra i campi arati, mi separano dalla strada. Il respiro della terra si alza lieve questa mattina, quell’alito caldo ed evanescente la schiarisce dandogli un aspetto cinereo.

La terra è calda rispetto all’aria. Quindi? Quindi anche l’acqua deve avere una buona temperatura. Quindi?  Quindi adesso... ho dimenticato le sigarette.

Non posso non fumare, oggi proprio no, ne va della mia salute mentale. Mi guardo intorno, vedo delle foglie secche e della paglia: mi sta quasi venendo un’idea balzana, quando a un tratto, realizzo d’essere in mezzo la campagna, da solo, il giorno della befana.



Lascio le mie cose cosi come sono: a nessuno verrebbe voglia di attraversare un campo arato, il giorno della befana.

Non ho nessuna fretta, peccato solo dover montare in macchina con i waders già bagnati. Va bene dai, vi risparmio cosa significa entrare in un bar pieno di gente con i waders sgocciolanti, il giorno della befana.


La prima boccata calda uccide in parte gli odori verdi della campagna, ma è così che iniziano le mie giornate di pesca, oramai da un pezzo.

Ci ho fatto l’abitudine e mi piace maledettamente. Fumare una sigaretta è come mettere un paio di occhiali scuri alla mente: è una sorta di filtro alla realtà. Quando sei a pesca, ti distoglie da tutta una serie d’inconvenienti che rendono la resa solitamente bassa: freddo, fame, mani gelate, punture d’ami, persino i cappotti.

Non esiste nulla di tutto ciò, solo una gran calma che rende i gesti puliti e la concentrazione massima. Non avere le sigarette è per me come non avere i pallini o gli ami: non è possibile procedere.

Eppure, è abbastanza insolito. E' abbastanza insolito se penso che, quando non vado a pescare, fumo soltanto la sera dopo cena ed in pochissime rare occasioni. E’ una strana forma di vizio selettivo, del resto, ho perso la speranza di trovare qualcosa di normale in me, i pescatori sono tutti, chi più chi meno, degli animali piuttosto strani.

Quella boccata mi riporta ancora a quell’agosto del 96’. Ne sono successe molte di cose in quel caldo agosto. Il primo liceo era andato, avevo preso qualche calcio nel culo da mio padre per via di un 8 in condotta ma era andata decorosamente. Ne presi tuttavia molti altri in quell’estate: una volta in particolare me la ricordo bene, mi tornano i lividi se ci ripenso. Tornai a casa da pesca, un acquazzone ci aveva sorpreso al lago e già questo aveva destato non poche preoccupazioni nei miei. Quando varcai la soglia della porta, sgocciolante come una busta di THE usata, fui investito dalla solita valanga d’improperi dovute essenzialmente al fatto che avrei sporcato tutto di fango. Il bello venne quando mio padre sbotto fuori con una frase:<< ... E poi, se proprio devi fumare almeno, comprale buone, non ti si può stare accanto dalla puzza!>>. Effettivamente, non aveva tutti i torti: le “nazionale box” erano qualcosa di disgustoso, ma non ne capivo molto a quel tempo.

L’errore fu quello di rispondere: << Io non ho mai toccato una sigaretta in vita mia! >>. Il seguito lo lascio alla vostra immaginazione. Comunque quella sera non uscì con Sara. Si chiamava così.

Quella sera la passai a preparare le lenze con Daniele: un altro inguaribile ammalato di pesca. Per anni, quando sono andato a pesca, ho pensato a lui mentre accendevo la prima sigaretta della giornata. Le nostre strade si sono divise, ma penso sempre con piacere a quell’ultima estate trascorsa a pescare e a fare dei gran bei danni con le prime ragazze e le prime sbronze. Qualcuno lo chiama diventare uomini, adesso che ne sono uscito indenne, piace pensare anche a me così: la verità è che siamo stati molto fortunati, a crescere con una passione magnifica, come quella che oggi portiamo ancora addosso come una seconda pelle. Anzi, come una seconda anima. C’è chi non ha avuto la stessa fortuna. C’è anche chi, quell’adolescenza scanzonata, l’ha bruciata malamente e ne patisce ancora oggi le conseguenze, nel fortunato caso in cui questo sia ancora tra noi.

 

Mentre sondo, mi accorgo di quanto sarebbe meglio scegliere la via più comoda in certe occasioni. I soliti posti questa mattina avrebbero dato, nell’ordine: sicuramente molto pesce, sicuramente pochi grattacapi e sicuramente poca gente tra i piedi.

E’ il cazzo di giorno della befana, per Dio, chi dovrebbe esserci in giro a pescare?

Soltanto uno stronzo come me che non ha nessuno con cui trascorrere un cazzo di giorno di festa!



La cosa che mi fa davvero incazzare è che, mentre faccio queste osservazioni mi tocca dare, per ben due volte, delle grandi bracciate di filo al galleggiante prima di trovare il fondo.

Otto metri e cinquanta, spanna più spanna meno e 30 metri di distanza: a tanto corrispondeva la passata nella corrente giusta.  Bel modo del cazzo di pescare a bolognese!

La giornata l’ho immaginata in un posto, dove lo scorrere del galleggiante potesse distogliere la testa da certe cose, se non altro l’obiettivo l’ho centrato. C’è il serio rischio che, l’unica cosa che farò oggi, sarà proprio guardare il galleggiante che scorre placido, se non metto “in bolla” l’armamentario.

Dopo una mezz’ora in cui, con grossa fatica, faccio correre il galleggiante sulla linea buona di passata, non sono ancora in grado di trovare la quadratura del cerchio. La corrente è molto regolare ma spinge all’interno. Il fondale che ho, a distanze più accessibili, è molto fangoso e degradante.

L’unica maniera che ho di pescare con discrete possibilità di successo è quella di accedere a quella linea lontana, li il fondo li è più regolare. L’unico rebus da risolvere è la corrente:<<Nulla che un po’ di piombo non possa curare>>.

Mentre penso ad alta voce questa frase, nel tentativo vano di farmi compagnia, getto una sbuffata di fumo con la sigaretta tra i denti. Questa battuta sarebbe stata bene in una sceneggiatura di Sergio Leone.

Ancora una volta, gli scherzi della mente sanno essere acuti: delle volte mi dimentico che ho visto ventitré volte “C’era una volta il west” e conosco la trilogia del dollaro fotogramma per fotogramma. Rifaccio la lenza con un quindici grammi, metto la solita torpille a circa un metro dall’asola, uso un finale da 50 cm e una scalata piuttosto snella: dieci pallini del quattro.

Il finale è un 16 e l’amo un 10 con un grasso fiocco di bigattini:<< Se proprio ne devo agganciare solo uno preferisco che sia sul gancio che dico io >>.

Non è la Tournament che brandeggio il miglior acquisto che ho fatto in questi anni, non è nemmeno l’Infinity che c’è montato sopra, sono indubbiamente due bei giocattoli ma non valgono quanto la convinzione che ho in quello che faccio.

Non è null’altro che la convinzione, quella specie d’intima fame che ci rende più concentrati, più cattivi quando peschiamo.

Guelfo me lo ripeteva spesso. Lo conobbi nel 2004, è un toscano di una schiettezza e di una sagacia con la canna in mano che ho visto a pochi. Io al tempo avevo consolidato il mio modo di pescare su pochi punti cardine: amo piccolo, filo fine e lenza leggera.

Beh, fu come vedere il sole sorgere a occidente quando, con la facilità di cui era capace, mi spiegò che solo in poche situazioni molto circoscritte l’estrema raffinatezza della presentazione paga. Il 99% delle situazioni che ci si presenta lui lo riassumeva così: << Zelli i pesci sono ‘home i cristiani, uno ‘home te, ‘he pesa 100 kili,  ‘un si po’ contentà di n’insalatina gli ci vo’ ‘na bistecca ‘ho l’osso, e bello alto anche >>.

 

La convinzione fa sparire l’antenna rossa con una fiammata secca ed inconfondibile. E’ la prima passata “che va come dico io”: il galleggiante mi passa davanti quel po’ più lento, quel po’ più giusto, che  ti viene da dire “Non puoi non affondare. Adesso!”.

La ferrata parte al primo cenno del galleggiante: è un gesto oramai di una spontaneità e di una naturalezza che non devo nemmeno pensarci. E’ l’unica arma che abbiamo nella sfida con il cavedano: non c’è canna rapida, non c’è lenza fatta bene, non c’è finale giusto, non c’è amo ricurvo, nulla di tutto questo può sostituire la conoscenza di questo strano pistolero.  Quel giochetto snervante del “chi spara prima” o quelle tocche appena accennate sulle quali, se non sei pronto, non ti lasciano né la camicia né le mutande: il cavedano non ti sfida, è la sfida, è la quint’essenza di quel tappino che scorre distante da noi in corrente e che ci piace tanto guardare.

Amo il giallo oro della sua pelle: questo che tengo tra le mani mentre lo slamo è ancora più giallo di altri, vuol dire che ha qualche primavera alle spalle, passa bene il kilo e mezzo ma non lo peso. I pesi li faccio alla fine, ora ho voglia di vedere ancora delle affondate. Me le sono guadagnate dopotutto, in un posto del come questo, me le sono proprio guadagnate.

La scena si ripete, questo è piccolo ed arriva al coppo ancor prima di rendersi conto di cosa è successo, con del 16 di finale sarebbe capace anche mia nonna.

Adesso in pastura ho parecchio pesce, la taglia è eccellente. I gardon di questo pezzo di fiume fanno davvero paura, più di una volta ho creduto d’aver preso un bel cavedano, ma capisci subito che all’altro capo della lenza non c’è lui: la mitragliata di un bel gardon la puoi confondere con quella di un pigo, ma non con le testate secche e pesanti di un cavedano di taglia, quello è un marchio di fabbrica che hanno loro soltanto.


E’ mezzogiorno, è un’oretta che del nevischio bagna le mie cose, ma non mi va di accorgermene finché non è ora di chiudere.

La pace ed il senso di estraneazione che una pesca concentrata e complessa può portare sono difficili da descrivere, solo un pescatore potrebbe capire di che cosa parlo. Solo chi l’ha fatto sa cosa significa.

La corrente va da destra verso sinistra, è abbastanza lenta e fluida, certo, la massa è elevata ma la spinta sembra costante. La deviazione che la lenza riceve verso riva è facile la ingannare: ho capito come gira la corrente.

Il galleggiante deve cadere un metro e mezzo fuori dalla linea di passata ed 8 metri a monte perché arrivi con la giusta velocità davanti alla mia faccia.

In questo modo il galleggiante ha tempo di raddrizzarsi ed entrare in pesca perfettamente un paio di metri prima della pastura: la lenza è spinta verso di me quel tanto che basta affinché, una volta che ha oltrepassato il mio sguardo, sia in grado di procedere su una linea quasi retta.

E’ sufficiente sbagliare uno di quei “numerini” che mi sono stampato in testa e la passata è sprecata: non si riesce a prendere la velocità giusta e la lenza è spinta verso l’interno arenandosi sulla gengiva della sponda.

La bacinella della pastura si vuota come una clessidra, con il passare dei minuti quella buona sabbia rossa finisce in fondo al fiume. Il tonfo è secco, l’acqua che si solleva intorno alla boccia, quando questa batte in acqua come una palla di cannone, è limpida e non rossa. Mi pare di immaginare quella palla che piomba giù attraversando metri d’acqua cristallina per cozzare su un fondo petroso e lavato dalla corrente. Soltanto aiutata dai caster e dai bigattini, comincerà ad aprirsi... Anche compiacersi di una cosa piccola ma ben fatta è pescare, è da pescatori.

Alle 16:00 incomincia a scendere la luce, mi guardo alle spalle e... la campagna non è proprio il caso di riattraversarla col buio. Arriva l’atteso momento della conta: i cavedani sono dodici. Quattro di questi sono pesci che stanno a cavallo dei 2 Kg ma, ad onor del vero, nessuno di loro ha fermato la lancetta sopra la fatidica cifra.  Quattro di loro fanno ben 7,2 kg. Ho un gardon che è grande come uno dei quattro cavedani e una quarantina di pesci tra mezzo kg e tre etti. E pensare che, volevo chiudere davvero la canna dopo che ho misurato il fondo.

Ho discretamente freddo, sono sporco e chinato su una rete, il crepuscolo diventa ogni attimo più scuro e nebbioso, ho un sorriso che va da un orecchio all’altro, se qualcuno mi vedesse adesso,  penserebbe ad uno appena uscito da un manicomio. Per fortuna non c’è nessuno.

Quando torno a casa, mia madre mi squadra di traverso, le vecchie abitudini sono dure a morire: vorrebbe dirmi qualcosa ma non ci riesce, è troppo sorpresa del mio buon umore. Vedete, sa di me abbastanza, ma non tanto quanto servirebbe per capirmi: non riesce a spiegarsi la mia serenità a seguito degli eventi che ho attraversato nell’ultimo periodo. Mia madre purtroppo per lei non sa pescare.

E voi? Fa anche a voi questo effetto andare a pescare?

 

Buon 2011 a tutti


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