Racconti

Arsenio Lupin

Di sergio farina pubblicato il 26/04/18

Il bar è datato, vetusto, obsoleto. Lo si capisce dall’arredamento, dall’età indefinita della barista, dagli avventori, dall’odore stantio, ma soprattutto dall’atmosfera. Appena varcata la porta d’ingresso si ha la netta sensazione di fare un salto nel passato, un salto di molti anni. E’ un minuscolo bar di provincia, ai limiti esterni di un piccolo paese, piazzato  in angolo con la strada principale. Sulla parete dietro il consunto bancone, sopra le  mensole  in formica verde acqua con gli spigoli spellati, fanno bella mostra di se alcune bottiglie di liquore stanche e polverose,  rade come i denti sulle gengive della barista. Un bar che sembra uscito direttamente da un film di Fellini, un bar anni ’50 dove tutti, avventori compresi, si sono dimenticati di girare i fogli del calendario o forse sperano che lo scorrere del tempo si dimentichi per sempre di loro. Però il caffè è incredibilmente buono e mi mette di buon umore, nonostante l’alba non sia sull’acqua, come mia abitudine, e le 7,45 segnate dall’orologio a muro certifichino il mio ritardo clamoroso. Alessandro mi apre le porte della cava deserta, se avesse una veste bianca con una grande chiave dorata in mano parrebbe San Pietro; questo per me è il Paradiso, un Paradiso a pochissimi Km da casa e dalla città, talmente vicino alle vecchia cinta muraria estense che diventa quasi assurdo il contrasto fra il silenzio di queste sponde e il rumore caotico e frenetico che scorre, rombando a suon di clacson, nella strada poco distante. Definire un Paradiso una cava commerciale può sembrare quanto meno inopportuno. Però c’è cava e cava. Questa la conosco  da quando giocavo nella terza categoria di un altro dei tanti paeselli che punteggiano la campagna ferrarese. Avevo più o meno vent’anni e, prima di scappare all’allenamento, facevo 4 lanci con le prime gomme siliconiche a caccia dei black bass nascosti fra la folta vegetazione acquatica  che ne ricopriva le sponde, oppure fra i grossi tronchi sommersi, residui di drastiche potature, che ne punteggiavano la superficie. Da allora non sono cambiate molte cose se non le gestioni, questa ha un’impronta prettamente spinnofila, se mi è concesso il termine, ma non ci solo predatori. Il mio target sono i grossi carassi, rari e furbi, che ancora ne abitano le acque. Sulla parola carassio tanti potrebbero storcere il naso; pesce poco nobile, poco pregiato, la cui diffusione è via via scemata fino a scomparire quasi del tutto per fare posto, almeno nei canali di bonifica che costituiscono il grosso della rete fluviale che abbraccia il Delta del Po, alle cugine francesi ricoperte di muco. Io sono un nostalgico e un grosso carassio, al pari di un baffuto pesce gatto, mi fanno battere il cuore e ripensare ai tempi che furono, alle canne in fenolico, ai tappi di sughero, agli ami bronzati e ai vermi di letame, a mio nonno e ai maceri che per anni sono stati il timbro validante sulla carta d’identità delle zone rurali dove sono cresciuto. Considero il carassio un degno avversario, scaltro e sfuggevole, difficile da insidiare, difficile da portare in pastura, difficile perfino da individuare nella mangiata, un vero Arsenio Lupin dei ciprinidi, pronto a rubarti l’esca senza nemmeno fare vibrare il tip. Mi piazzo sulla sponda che al mattino è contro sole, il breve e momentaneo disagio sarà ampiamente compensato nel pomeriggio quando la stessa sponda sarà all’ombra dell’alto canneto e dei pioppi retrostanti. La postazione è letteralmente incastonata nello stesso canneto. Alessandro ha ricavato pochi punti di accesso all’acqua lasciando il resto del perimetro allo stato brado, ottenendo un habitat ideale per predatori e prede. L’acqua ribolle di vita. Le carpe sono in frega e squassano vigorosamente gli steli che crescono in acqua spanciando, saltando, rincorrendosi in un carosello amoroso che da solo varrebbe il prezzo del biglietto. Nel corto gradino nel sotto sponda, limpidissimo, passano a più riprese gruppi più o meno numerosi di fertili regine con il frenetico codazzo di spasimanti. Il resto lo fanno le scardole, chiassose come sempre, enormi amur che banchettano con i piumini dei pioppi sparsi sul lago e le cacciate dei channel che contendono ai bass il pesce foraggio o qualche incauto gambero che ha lasciato la tana senza il favore delle tenebre. Sulla sponda, quasi non bastasse il via vai in acqua, passano a ripetizione i ramarri, dalla livrea di un verde quasi fastidioso, alla caccia di insetti; quando passano fra gli gli arbusti secchi della sponda sembrano dei vecchi 50 cc scarburati in violenta accelerazione. Trovare la giusta concentrazione in questo tripudio primaverile non è semplice, il carassio ha bisogno di un set up perfetto per accettare l’inganno. Precisione, silenzio e presentazioni impeccabili sono condizioni indispensabili per avere qualche probabilità di successo. Ho scelto una corta 10’ montando il più sottile dei tip, uno 0,75 oz in carbonio talmente sensibile che se un carassio respira vicino l’esca dovrei vedere la mangiata. Le prime due ore trascorrono nel nulla assoluto, ampiamente prevedibile. Il pesce è talmente “wild” che ogni più piccolo rumore, anche il semplice tonfo di un flat method da 15 gr., lo mette in allarme. E’ quindi necessario pazientare ed aspettare che i piatti di questa strana bilancia: diffidenza e fame, comincino a sbilanciarsi pendendo verso il secondo. La prima mangiata è quasi un soffio, una sorta di “alitata” sul tip da 3\4 di oncia, difficilissima da vedere anche con il filo scarico dalla tensione. Aspetto il secondo refolo e gli tiro. Lo sento subito pesante. A prima vista potrebbe essere una delle numerose tartarughe che popolano il lago. Poi comincia a spingere, cambia un paio di volte direzione, e aspetta il sottosponda per dare il meglio di se con testate potenti e un paio di ripartenze da brivido. Quando è dentro la testa gommata del guadino capisco subito che è grosso, faccio la tara e passo alla pesatura, il primo numero della bilancia è un 2 il resto conta poco. Nelle restanti ore di pesca riesco a portarne al coppo altri sei, non supereranno il primo ma sono tutti pesci grossi, abbondantemente sopra il chilo e mezzo. La bellezza sta nei diversi approcci, nelle difese differenti, nell’approccio alla mangiata che, in un caso, sembra quello di una carpa con una partenza a razzo a stento parata dalla flessibilità della canna e dalla frizione ben tarata. È un duello continuo che cambia regole ad ogni pesce, una sorta di gioco a “guardia e ladri” dove alla fine quello che conta è solo l’esperienza e una grossa dose di fortuna nel capire, soprattutto, il giusto timing sulla ferrata. Il più bello rimane proprio il primo, un vero Arsenio Lupin che se se non fosse per la citata fortuna avrebbe tranquillamente rubato l’esca lasciando sul posto solo labili impronte di pinne e l’eco di una risata di scherno.


FacebookTwitterGoogle+Invia per email

Collabora


Ti potrebbero interessare anche: