Racconti

Caino il bandito

Di Federico Rampazzo pubblicato il 16/04/09

Secondo classificato 4° edizione Amarcord.

Quando frequentavo la scuola media, avevo la fortuna di essere stato inserito in una classe di somari. Riuscivo cosi ad ottenere ottimi risultati senza il minimo sforzo. Certo questo andò a discapito della mia preparazione scolastica, ma mi permise di poter passare moltissimi pomeriggi a pesca senza che questo influisse negativamente sul mio rendimento.

A quell'età mi era proibito attraversare la strada statale, cosi pescavo prevalentemente nel fiumicello che scorreva davanti casa, il Tergola.

Avevo una fissa Holland di 5 metri in fibra di vetro regalatami dal nonno quando capì che l'iniziarmi alla pesca aveva generato in me un bisogno di cui non avrei più potuto fare a meno.

Nei mesi caldi le acque basse e lente del Tergola richiamavano un'enorme quantità di pesce dal canale Naviglio, corso d'acqua maggiore in cui terminava il suo corso. Erano soprattutto ciprinidi, che qui trovavano le condizioni ideali per la frega. Nelle prime ore della mattina, gli anfratti nascosti del sottoriva diventavano teatro di vivaci caroselli di pinne colorate che si inseguivano e si intrecciavano. Erano le tinche, maestose ed eleganti come dame d'altri tempi. Sotto i giunchi e i canneti distesi sull'acqua, le grosse labbra gialle sfilavano distinte e fiere, quasi facendo a gara a chi esibiva la livrea più bella.

Quel sottile velo d'acqua che le separava dal mondo subaereo, permetteva loro di corteggiarsi indisturbate e senza fretta e a me di osservare furtivamente i loro giochi.

La danza dell'amore, quel rituale che anno dopo anno si ripeteva con impressionante tempismo e sincronia, assicurava la ricchezza del fiume per gli anni a venire. Era un equilibrio perfetto, atavico, fissato nel tempo della natura e tramandato da chissà quando. Sembrava immutabile. Nessuno davanti a quello spettacolo avrebbe mai potuto pensare che da li a pochi anni sarebbe finito, portato via dall'egoismo dell'uomo, dalla cieca avidità di ricchezza, di progresso, di "evoluzione". Quell'evoluzione che ci ha dato tutto, ma che in cambio ha preteso i boschi, i fiumi, i laghi, gli animali, la biodiveristà. Quell'evoluzione che sta precludendo ai nostri futuri figli la possibilità di andare a caccia di cavallette, di scoprire la tana di un grillo, di assaporare il profumo della vendemmia, di percepire nella natura i cambi delle stagioni, di poter constatare quanto immenso sia lo spettacolo della marmoratura di una femmina di luccio a febbraio. Di quei giorni di pesca indisturbati, ce ne fu uno che ricordo bene, come fosse ieri.

Quel pomeriggio ero a passata quando si alzò una leggera brezza. Il mio galleggiante, che fino a pochi minuti prima era animato da un via vai di scardole e triotti, non ebbe più alcun sussulto. Capii che per quel giorno era finita e decisi comunque di aver pescato a sufficienza. Notai sulla sponda opposta, poco più a monte, un pescatore. Era un uomo sulla sessantina, basso e con le gambe storte. Vestiva con dei larghi pantaloni in velluto blu e un appariscente maglione di lana rossa, nonostante fosse maggio e le temperature fossero quasi quelle estive.

Era il secondo giorno consecutivo che lo vedevo li. Era in un posto comodo e facilmente accessibile che tuttavia non mi aveva mai dato l'idea di essere pescoso e avevo sempre trascurato non sapendo bene come interpretarlo. Chiusi la mia canna e raccolsi le mie poche cose, salii sulla bicicletta e mi avvicinai a lui. Lo osservai dall'alto della riva. Si muoveva con fare nervoso e maldestro, ma lasciava trasparire una grande determinazione a portare a termine la sua pescata con successo. La disposizione delle sue attrezzature poi, mi parve quanto mai sommaria. Nel complesso non dava l'idea di essere un pescatore molto tecnico. Molti particolari sembravano lasciati al caso.

Le sue due canne poggiavano su pesanti supporti in ferro, ricavati da materiale di risulta di un cantiere edile. I vettini, alti sull'acqua, lasciavano cadere le lenze immediatamente dopo la vegetazione del sottoriva. Notai la disposizione dei suoi galleggianti ed ebbi l'impressione improvvisa di comprendere quel tratto di fiume che mi era sempre apparso ostile, come se me ne fosse stata fornita la chiave di lettura. Dedussi abbastanza velocemente che il vecchietto ci sapeva fare e pensai che in fatto di "leggere l'acqua" avevo ancora molto da imparare.

Mi vide, ma non ci fece caso, quasi a voler mantenere l'aura del tipico pescatore solitario. Mi feci coraggio e scesi piano e in silenzio lungo la riva, sapendo che lo avrei potuto disturbare.

"Salve", dissi, dopo alcuni secondi di silenzio.

"Ciao bocia1" rispose, senza nemmeno voltarsi.

Teneva la testa bassa, intento ad innescare dei bigattini in un amo che a me parve enorme. Aveva in bocca una sigaretta stropicciata, che si ostinava a fumare sebbene fosse ormai giunta al termine e si muoveva con fare inquieto. Alzò la canna e distese la lenza sull'acqua spostando il peso del corpo sulla gamba sinistra. Per un attimo ebbi l'impressione che stesse per cadere in acqua. L'innesco sprofondò nella timida corrente, ma il galleggiante rimase starato. Ripose la canna e accese un'altra sigaretta.

"Non usa lo stopper per il galleggiante scorrevole?", gli chiesi, sembrandomi la cosa inspiegabile.

"Il galleggiante non mi serve, ma mi darebbero del pazzo qui se non lo usassi", disse volgendo lo sguardo verso di me.

Le sue folte basette bianche e i capelli spettinati facevano risaltare due grandi occhi azzurri, limpidi e profondi come quelli di un giovane, a discapito delle guance, solcate invece da profonde rughe. Il suo sguardo era diretto, puntava dritto su di me e non lasciava scampo; era tuttavia "morbido" e mi diede l'impressione di voler trovare comprensione, forse complicità.

"Certo" dissi, "se abbocca si vede lo stesso, e il pesce non avverte il peso del galleggiante".

Detto questo salutai e tornai a casa, convinto che la mia risposta gli fosse piaciuta.

Nei giorni seguenti ci saremmo rivisti più volte ed avemmo modo di conoscerci meglio. Parlavamo di pesci, di tecniche e fantasticavamo sulle future battute di pesca. Io lo aiutavo con i nodi, che non gli riuscivano più bene come un tempo, mi diceva, mentre lui mi parlava di avventure passate, di viaggi estremi, di acque fatate, di donne e bracconieri. Venni poi a sapere in paese che lo chiamavano Caino, Caino il bandito. Era considerato pazzo, scorbutico, inavvicinabile. "Per questo pesca sempre solo" dicevano nei bar "stagli alla larga ragazzo".

Ma in lui non vedevo nulla di tutto ciò. Assecondava la mia brama di imparare con entusiasmo e senza parsimonia nello svelarmi i suoi segreti. C'erano in lui un affiatamento e una determinazione atipici per un uomo della sua età.

Una mattina di agosto di buon'ora ero già sul Tergola. Volevo catturare delle carpe e per questo avevo pasturato per tre sere consecutive un posticino all'ombra con della polenta alla cipolla. Verso metà mattina dovetti chiudere velocemente le canne e andarmene. Nuvoloni cupi e carichi di pioggia stavano sopraggiungendo da ovest ed il cielo si era fatto nero. Mentre stavo per andarmene sentii un' auto fermarsi alle spalle. Mi girai, era Caino.

"Bocia, tempo rotto bon da bisati2" disse in dialetto, citando il tipico detto veneto.

Mi disse di farmi trovare alle 9 in punto dove sapevo io, e di ricordarmi di portare i vermi.

Da tempo infatti gli proponevo una battuta ad anguille, ma mi aveva sempre detto che avremmo dovuto aspettare il momento giusto.

Conoscevo un buon posto per trovare i lombrichi d'acqua. Sapevo che per le anguille erano irresistibili. Presi gli stivali a coscia e mi avviai al fiume. Chiesi in prestito una forca a Gino, un contadino che abitava lungo il Tergola. Scesi sulla riva ed entrai piano nel fiume finché l'acqua non fu appena sopra il ginocchio. Piantai la forca ed estrassi una zolla che posai sulla riva. La spezzai in due. Brulicava di lombrichi annodati fra loro, rossi e lucenti come una colonia di corallo. Ne estrassi una ventina facendo attenzione a non spezzarli levandoli dall'argilla. Erano sodi e ruvidi. Li riposi in un panno umido con qualche piccola zolletta di sedimento. In loro ricadde tutta la mia immaginazione per la battuta di pesca della sera. Riposi i resti della zolla da dove l'avevo tolta e tornai.

Quella sera infransi la regola e attraversai la statale. Si doveva pescare sul Naviglio. Giunto sul posto, percorsi in silenzio il sentiero sulla riva, passando prima dietro al pub, poi davanti all'ultima casa che mi separava dal luogo stabilito. Lasciai la musica ed il frastuono del locale alle spalle. Davanti il silenzio e l'erba umida. Quel distacco mi trasportò lontano, mi fece sentire vivo. L'avventura era li, lontano dal mondo.

Poco dopo arrivò Caino.

La pioggia della mattina aveva gonfiato il fiume. L'acqua era torbida e scorreva forte, formando dei gorghi sulla massicciata, proprio sotto i nostri piedi. Innescai subito un lombrico, ma Caino, ferreo, mi ammonì all'istante: "quelli tienili per il buio, quando scardole e carassi avranno smesso di mangiare". E così feci.

Poco dopo un tonfo sordo a monte ci fece sobbalzare. Girammo lo sguardo. Un sacco di spazzatura bianco galleggiava nell'acqua. Era stato lanciato dalla finestra della casa vicina. Caino bestemmiò sottovoce, abbassò lo sguardo e gettò la sigaretta in terra schiacciandola con il piede. Poi lo vidi andare verso la casa, con passo nervoso e strascicato. I suoi occhi avevano cambiato colore. Non lo avevo mai visto così.

Eccolo, era lui!!! Caino il bandito, il pazzo che conoscevano tutti.

Arrivò velocemente al cancello e iniziò a tirarlo avanti e indietro con entrambe le mani, urlando come una furia indemoniata di farlo entrare, che li avrebbe educati lui una volta per tutte. Caino veniva da una famiglia povera, che in passato della pesca aveva fatto un mezzo di sostentamento, prima ancora che di diletto. Non poteva accettare tutto questo. Nella sua rabbia cieca vedevo chiaramente l'enorme rispetto per quel patrimonio naturale che piano piano gli uomini si stavano portando via. E capii che quel rispetto avrei dovuto portarlo sempre saldamente dentro di me.

Poi riprendemmo a pescare. Stavano per calare le ultime luci. Presi le starlight una a una e, dopo averle spezzate e agitate, le innestai sui vettini delle canne. Avrei potuto farne a meno e vedere ugualmente bene le abboccate, ma quel gesto, quasi ritualistico, era una pratica d'obbligo che accendeva la mia fantasia e rendeva l'atmosfera mistica.

Fece buio. Caino mi fece un cenno con la testa, capii al volo. Era il momento. Innescai un bel lombrico, a calza per metà, lasciando libera di muoversi la parte rimanete. Lanciai. I gorghi scuri ingoiarono la lenza portandola nell'aldilà, assieme alle mie speranze. Riposi la canna. Il mio pensiero andò laggiù, nel mondo dell'ignoto, tra i ciottoli del fondo e i fantasmi del fiume.

Fantasticai con la mente non so per quanto. Pensiero su pensiero, quasi non mi accorsi dell'abboccata. Il cimino si piegò violentemente, tanto che il calcio della canna si alzò da terra. "Bocia, tira!!!!!!" gridò Caino, che fino a qual momento se ne era rimasto in silenzio fra i suoi pensieri e le sue sigarette.

Ferrai con la massima attenzione per non strappare la lenza. Dall'altro capo un colpo violento, disperato. C'era! Strattonava in modo nervoso e cercò subito la fuga fra il fondo accidentato. Non potevo permetterglielo. Cercai di portare il pesce al sicuro a mezz'acqua. Era difficile recuperare la lenza. La sua forza era immane ed io non volevo fallire. Poi sentimmo il rumore dell'acqua infrangersi. Era in superficie, ma ancora non lo vedevamo. Caino preparò il guadino nel sottoriva. In quel momento comparve. Era lei, l'anguilla.

"L'è el bisato3!!!!" gridò Caino, quasi come monito a fare attenzione a non perderlo. Era enorme, non avevo mai visto un'anguilla così. Si dimenava indemoniata, come un serpente elettrico. Era dura per lei ammettere di aver sbagliato! Quando fu nella rete Caino cercò di slamarla, mentre tenevo il filo teso per evitare garbugli. Non aveva per nulla esaurito le forze. Il contatto con l'erba bagnata le diede il soffio di speranza per l'ultimo disperato tentativo di riguadagnare la libertà. Con una contrazione spasmodica ritrasse la testa violentemente cercando di sfilarsi dalla morsa delle mani. Toccò terra! Cercò di farsi spazio nell'erba umida. Nel buio della riva le mani di Caino cercarono invano di afferrarla, mentre il filo si spezzò lasciandomi attonito senza sapere cosa fare. La vidi svanire tra i massi con Caino inginocchiato e sconfitto.

Bestemmiò.

Quella sconfitta pesò come un macigno. Quella sera imparai a perdere.

L'estate successiva mi trovavo in vacanza con gli amici. Erano le prime libertà che ci venivano concesse. Una mattina, mentre ci avviavamo alla spiaggia, distrutti dal sonno e dagli eccessi della sera prima, suonò il telefono di Fede, l'unico allora ad avere il cellulare. Non era l'orario tipico della telefonata di rassicurazione dei parenti.

Quegli squilli squarciarono l'aria come una chitarra lisergica. Prima ancora che rispondesse, mi sentii strappato dal mio stato letargico. Ebbi l'impressione che mi si dilatassero le pupille e mi si contraessero i muscoli del collo, come quando si avverte un pericolo imminente. Quando Fede rispose, mi girai verso di lui. Nominai Caino a bassa voce. Lui, mentre ancora ascoltava la madre dall'altra parte, fece si con la testa e abbassò il capo distogliendo lo sguardo dal mio. Mi richiusi in me stesso e tornai a smaltire la sbornia ed il dolore.

Era stato portato via dal fiume, il suo fiume, proprio mentre tornava da pesca. Nessuno sa come andò di preciso, se un malore o un passò maldestro. Ma scivolò nel fiume e fu ritrovato dopo una settimana a qualche chilometro di distanza. Dopo anni il dolore è scomparso e non posso che sorridere al suo ricordo, consapevole che se avesse potuto scegliere, non avrebbe mai voluto morire avvolto tra le braccia di una bella donna, ma avvolto da quelle del suo fiume.

Quest'inverno, prima della chiusura del luccio, ho invitato il mio amico Riccardo ad una battuta a spinning col morto manovrato. "Andiamo sul Tergola, come ai bei tempi!", gli ho detto e lui non si è fatto pregare.

La pesca è anche questo. Una transumanza tra i luoghi della nostra giovinezza, a caccia di quelle emozioni che ci hanno forgiato, che ci hanno fatto diventare ciò che siamo. Luoghi irrimediabilmente cambiati, compromessi, ma che vogliamo vedere ancora come allora, come se il tempo non fosse trascorso, come se non avessimo ancora visto il mondo aldilà di quelle sponde.

Un pellegrinaggio tra i ricordi più belli, da condividere con pochi meritevoli compagni d'avventura.

Ho preso un triottino dal secchio del vivo e, non senza il dispiacere che mi prende sempre quando lo faccio, l'ho innescato sull'apposita montatura. Il lancio, li nel solito posto, dietro a quel ramo dove so che in quella stagione si cela lui, mister Esox.

Non appena il pesciolino tocca l'acqua, un bagliore argenteo illumina il sottoriva come un flash. Pochi attimi e sento la lenza trasportata verso il centro della corrente. Tengo il filo teso, accompagnando la direzione scelta dal pesce. Poco dopo, quando sono certo che abbia ingoiato l'inganno, tiro. Un breve combattimento e salpo un bel cavedano sui sei etti. Non è lui, il signore del fiume, ma va bene lo stesso.

Solo dopo averlo slamato, mi accorgo di un bambino in bicicletta che, fermo alle mie spalle, ha seguito tutta la scena in silenzio. Non appena lo vedo subito mi chiede: "Ma pesca con il vivo signore? E come lo innesca?". Improvvisamente ho rivisto in lui il ragazzo che ero io. Lo stesso entusiasmo, la stessa passione innata e la cieca brama di sapere, di imparare. Quasi non mi sono accorto che non gli stavo per rispondere. I suoi occhi mi fissavano, attendevano risposta. Attendevano un maestro. Ho accusato il suo sguardo per qualche secondo, quasi a voler cercare rifugio in qualcosa che non c'era. Poi ho mostrato al ragazzo la montatura che stavo utilizzando e come fare l'innesco. Mi guardava con timore ed ammirazione. Nelle mie parole, però non c'era l'entusiasmo, non quello che avrei voluto poter dare. Quasi mi sentivo imbarazzato a spiegare una cosa che ormai per me era diventata banale e ripetitiva.

Ed è stato allora che mi sono tornati alla mente gli occhi azzurri di Caino, il suo sguardo alienato, colmo di sogni e di poesia, di quando mi spiegava come fare. Ed io ancora non sapevo reggere lo sguardo di quel ragazzo.

Solo allora ho capito veramente quanto grande fosse stato il mio maestro.

Note:

Bocia: ragazzo, bambino. Detto anche con tono scherzoso.

Tempo rotto, bon da bisati: Il tempo instabile è propizio alla pesca delle anguille.

L'è el bisato: è l'anguilla.

 

La pesca, perfetta alchimia di arte, natura, scienza, tradizione e poesia, impassibile davanti ai progressi tecnologici e alla regressione dei rapporti umani, gode ancora del privilegio della necessità dei Maestri, vettori del sommo sapere di questa magia. Eroi attraverso i quali scorre l'arte alieutica e che inconsciamente ne tramandano l'essenza.

A loro è dedicato questo racconto.


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