Racconti

Come i sassi del fiume

Di Massimo Zelli pubblicato il 23/11/12

E' passato un po'. E’ passato un bel po' di acqua sotto quell’argine ed anche sopra. Sono passate un bel po’ di piene che hanno spazzato dei sassi uguali a loro stessi nonostante gli anni, nonostante il fiume, nonostante le nostre impronte su di essi. Sembra di no. A guardarmi in dietro, le uniche cose che sono restate fedeli a loro stesse nel mio scorrere sulla curva che, in ascissa ha il tempo e in ordinata il filo teso di una lenza, è qualche canna e quel magnetismo che l'acqua esercita su di me.

Sono sparite delle comparse che sembravano attori principali del mio vissuto, sono arrivati attori nuovi che devo ancora pesare, altri che ho pesato al volo e scritturato, oppure licenziato con altrettanta disinvoltura ... E’ già, direbbe Vasco, io sono ancora qua, come quei sassi. L’esperienza è un effetto collaterale dell’ ”annite” e la maggiore scioltezza nell’affrontare certe faccende non viene per diritto di nascita, si guadagna a suon di ceffoni, a cucchiai di merda mandati giù con il sorriso, a grugnate per terra. Forse sono solo diventato più arcigno anche se più calmo nei modi. Forse non me la bevo più con facilità quando me la raccontano. Forse gli sganassoni presi non sono bastati ma sono certo che m’hanno reso più forte, più cauto nel fidarmi, più capace di scegliere e non di essere scelto.

E’ quando giungi a certi pensieri che in fin dei conti, anche se non è mia abitudine guardare indietro, cominci realmente a contare cosa hai portato a casa dal tuo vissuto. Scoprire ogni tanto che qualcosa di buono succede mi rende le giornate più sopportabili in questo autunno piovoso che rimbalza col suo grigiore dalla finestra del mio ufficio sulla scrivania di formica color noce.

Era ottobre 2008 e quel tizio rosso e massiccio era un simpatico conoscente. Più simpatico che conoscente ma poco importava. A quei tempi Candido, quello dell’ottimismo, albergava ancora dentro queste membra di pescatore e pensava che quel collante universale detto pesca bastasse a chiamare amici quelli con i quali si condivideva quell’intima arte che l’amo e la lenza portano con se.

Quel giorno lo ricordo inoltre per un’altro particolare, una quantità smodata di pesce: sembrava facessero a gara. Ricordo che pescavo con 8-10 grammi e la mitica verde mandando la lenza a rovescio. C’era un pallino del 3 a 3 cm dall’amo e il tappo spariva come una cannonnata.

Quel giorno il suono ovattato della lenza tesa in acqua mi ha tenuto i timpani ben occupati, ma non erano occupati abbastanza da non sentire che con il massiccio rosso che incannava barbi a ripetizione c’era un feeling ottimo.

Pensavo questo oggi, mentre di nuovo quel suono ovattato di violino echeggiava nella solitudine del mattino su una sponda che era quella di ieri, quella di quell’ottobre lontano.

Ho l’ennesimo barbo in canna, questo è grosso: chiudo la frizione per vedere se la canna che ho in mano ha veramente fiato abbastanza per correre su queste strade scoscese.

Sergio prende istintivamente la macchina fotografica e spara un paio di pose: la trazione del pesce è potente e regolare, riesco a bilanciare la spinta angolando la canna e portandomi con il peso leggermente in dietro. Sono lontani i tempi in cui non sapevo come prenderla una tal forza sulla canna. E’ incredibile la spinta che questi combattenti fusiformi sanno sviluppare. Di quei tempi resta l’emozione e il sudore freddo per la paura di perdere un bel pesce, per il resto, il gioco di forze è una faccenda di equilibri: bisogna far lavorare canna e mulinello risparmiando braccia e schiena per arrivare a sera con ancora la forza di fare l’argine carichi di roba e guidare fino a casa. Una mano tiene il tallone, l’altra mano è fissa sopra al mulinello, una tira e l’altra spinge: il pesce mette in tensione la lenza con l’onesta dell’ignoranza e la generosità della forza io ci metto “del maligno” invece... Quando abbasso la punta in acqua perchè so che così non può sfruttare il suo peso, lo so che sto tradendo la fiducia di un gioco pari. Ci metto dell’esperienza e un filo di cattiveria quando lo faccio emergere a monte perchè così la corrente lo spingerà a valle dentro al coppo.

Sergio mi dice ha fatto degli scatti ottimi, io sono invaso di adrenalina per la cattura e i pochi filtri che ho nel parlare sono andati a farsi benedire, mi scappa un distrattissimo:

-tanto non servono, non preoccuparti_

Lui di rimando ci resta un po’ male e replica: _ma come? Non sei venuto perchè ti servivano delle belle foto?_

-No Sergio, non è per le foto, quelle le ho fatte ieri, con Mauro. Oggi sono venuto soltanto per pescare con te_

Al rosso scappa un sorriso che lampeggia soddisfatto sotto le ciglia irsute.

E’ già, è proprio così: era solo il piacere di farmi una pescata con un amico.

C’era un amico in meno quel giorno. Oggi c’è un amico in più, fine delle differenze. C’era lo stesso fiume, gli stessi pesci, persino gli stessi suoni. Il 13 ottobre di quest’anno c’era pure la stessa luce e ho scattato la stessa foto della stessa alba con lo stesso ramo controluce. La stessa canna di quel giorno era nella sacca montata con la stessa lenza, oggi ce ne volevano il doppio perchè il fiume era più alto. Insieme a tutte queste cose c’erano due che erano li anche quel 4 di ottobre del 2008, avevano la stessa voglia di pescare, avevano le stesse paure che il tappo non desse il segno, vivevano le stesse emozioni quando invece il segno lo dava ... più e più volte. Erano uguali a loro stessi quei due come i sassi del fiume che giacevano sulla sponda ignoranti delle intemperie e delle stagioni, solo un po' più vicini oggi. Resteranno a lungo quei sassi, finchè la più forte di tutte le correnti non li porterà via da dove sono stati sempre, in un altro punto del fiume.


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