Racconti

Dove finiscono le carpe?

Di gianluca milillo pubblicato il 08/09/12

Il tema delle Carpe Volanti (o Fly Carp) è certamente uno dei temi più drammatici che affligge e mina il panorama del Carpfishing responsabile: fenomeno particolarmente “vecchio” anche se se salito alle cronache in un passato recentissimo è ancora forte di incompetenze legislative, di vigilanza e di permissivismi delle amministrazioni territoriali che non possono non essere definiti che catastrofici.

Premesso che il Getapesca, particolarmente attivo verso la repressione e prevenzione di tale fenomeno, ha attualmente concretizzato l’impianto normativo di riferimento per generare un decalogo in uso alle forze dell’ordine dedicato ad arginare questo fenomeno che di fatto ha ripercussioni tanto sull’ambiente, quanto su fisco, sanità e benessere animale.

La vastità dei contenuti che coinvolgono la materia spesso confonde gli stessi operatori dell’ordine, sovente incapaci di scematizzare i controlli separandoli analizzando il fenomeno nelle sue azioni consequenziali:

-         trasporto

-         ricezione nelle strutture di pesca sportiva

-         danni diretti ed indiretti all’ambiente

 Ulteriore necessaria premessa è che, in termini giuridici, per le peculiarità e le modalità gestionali, un lago di pesca sportiva viene equiparato all’ittiocoltura (amministrato dalle norme sull’agricoltura): ciò comprende quindi, anche nei trasporti dei pesci acquistati, la necessità di protocolli di trasporto ben codificati.

Per quanto oscena e disarmonica rispetto all’etica che muove il Carpfishing, sono purtroppo molti gli sportivi che vendono il proprio pescato eludendo la legge a queste strutture, ma la fante di approvvigionamento maggiore è rappresentata dalla pesca di professione in acque interne: un vero e proprio crimine legalizzato, anacronistico rispetto alla sensibilità ambientale moderna e lontana dagli schemi di un paese civile che dovrebbe proteggere il proprio patrimonio faunistico anziché venderlo.

Catturare animali selvatici per venderli è proprio di culture primitive, incapaci di soluzioni creative ecosostenibili, mentre in Italia (anche attraverso l’ultimo abominevole patto commerciale italo-rumeno sulla vendita degli alloctoni dei grandi laghi lombardi) di tale barbarica pratica, le amministrazione pubbliche ne fanno un vanto e proteggono tale realtà.

In genere le carpe vengono pescate nel bacino padano e nei grandi laghi del centro Italia, stabulate in vasche, gabbie di contenimento o stagni artificiali, per poi essere immesse sul mercato sia alimentare che dei laghi di pesca sportiva.

La giustificazione di gestori ed associazioni del possedere “regolare fattura d’acquisto” di un allevamento, a testimonianza di una transazione “etica”, non assolve che tale pesce è stato prelevato (anzi rubato) all’ambiente ed alla collettività.

Animali liberi, depredati dal bene pubblico per essere trasformati e sfruttati in strutture private: sarebbe già di per se offensivo verso chi attraverso la pesca vive un rapporto di rispetto e positiva cultura, elemento che però non coinvolge una coscienza di massa considerato il continuo proliferare di queste realtà commerciali e il crescente numero di clienti.

La  pesca  è  una  delle  attività  più  antiche messe  in  atto  dall’uomo  per  poter  soddisfare  i propri  bisogni  primari: sin  dai  tempi  più  remoti è  stata  una  fonte  naturale  da  cui attingere per procacciare cibo, prima con l’ausilio di rudimentali attrezzi di cattura, poi con attrezzi statici ed, infine, con quelli dinamici.

L’attività di pesca professionale, quindi, ha avuto una sua evoluzione nel tempo, in quanto si è  assistito  al  mutamento  di  questa  da  attività  di  mera  cattura  a  quella  di  impresa produttiva, con le conseguenti drammatiche ripercussioni di impatto biologico-ambientale. Pur se in un cupo passato ha sorretto un economia locale e vendita di prodotti della pesca, la domanda che bisogna porsi, è se  l’attualizzazione dell’analisi di  incidenza di  tale pratica sia  ancora  sostenibile  in  modo  da  garantirne  la  sopravvivenza,  sia  della  risorsa  che conseguentemente della pesca professionale stessa. Una  tale  trasformazione richiederebbe o  una nuova  regolamentazione della pesca di professione e della modalità di esercirla,  nel  rispetto  della  sicurezza  della  navigazione,  della  vita  umana  correlata, nonché dell’ambiente, o (l’auspicio) la sua abolizione dalle acque interne, classificandola come retaggio insostenibile di una tradizione dannosa e incompatibile con uno sviluppo uomo/natura.

Contrariamente invece oggi, tale realtà viene praticata o senza nessuno controllo se non per il protocollo burocratico del rilascio di licenza, o addirittura protetta a più livelli (politici, amministrativi, funzionali) mantenendo in vita un  di  ciclo  produttivo  costituito  da  bordate  di pesca  che  si  differenziano,  ai  fini  operativi  e  gestionali,  sia  per  tipologia  di  «mestiere» impiegato, che per ambito temporale di esercizio. L’epilogo di convivere con un’attività distruttiva sarà tragico: se per il mare la FAO ci comunica che mantenendo lo stesso ritmo odierno di pesca industriale in pochi decenni vedremo scomparire la metà della risorsa ittica, nelle più limitate e circoscritte acque italiane il processo sarà molto più veloce e devastante. Per questo invoco i pescatori sportivi responsabili a non limitarsi alla sola indignazione, ma di partecipare a tutti quei programmi di contrasto politico alla pesca di professione nelle acque interne, nell’interesse di animali muti…ma liberi e vivi.


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