Racconti

Il debito saldato

Di Fabrizio Castaldi pubblicato il 31/01/14

IL DEBITO SALDATO

Avevo circa 6 anni quando, mio nonno, mi portò per la prima volta a pescare. Fu un’autentica folgorazione, non ricordo con esattezza dove e come, ma respiro ancora oggi come se fosse allora, il profumo intenso e pungente di quella pipa, che lui amava fumare infinitamente prima di partire per il fiume, il nostro Santerno. Quell’eccitazione del dopo pranzo, il quadretto appeso sopra la porta della sala, ripercorso impazientemente mille volte con gli occhi cercando di scorgere l’impercettibile nuovo movimento delle lancette immobili dell’orologio, la trepidante attesa, le ingenue aspettative di enormi e copiose catture, farcite e fomentate da racconti variopinti e concimati dal tempo di un bambino che sogna e non pensa ad altro. Durò poco, purtroppo.
Mio nonno se ne andò prima del mio nono compleanno, troppo, veramente troppo presto perché io potessi apprendere qualcosa da lui, così mi ritrovai ben presto carico solamente di un’infinita passione, un’incrollabile volontà e nessuna guida.
I cappotti erano continui e quasi scontati, quando mi portavano al lago o al fiume passavo il mio tempo seduto dietro ad altri pescatori “grandi” guardando e studiando montature e movimenti, nella speranza di imparare qualcosa. Al tempo purtroppo non c’erano forum, internet o qualcuno che potesse insegnarmi e per me, che non arrivavo a 10 anni, nemmeno mezzi di trasporto.
Fu mia nonna allora, che intuendo la situazione e le mie impellenti necessità, mi promise una giornata al lago per poter dar sfogo alla mia passione.
Andammo con la “carolina”, una fiat 126 bianca seminuova che sbuffava e arrancava, ma tanto bastava per macinare la strada e infrangere quei limiti insormontabili che mi dividevano dai miei sogni.
La meta fu il laghetto conosciuto oggi come la Baia di Pinocchio, ma al tempo era ancora una cava abbandonata e selvaggia, popolata di “branzini” (così amavo chiamare i black bass) e le fantomatiche e fameliche “rosette” (ergo poi scoprire il vero nome ovvero il persico sole).
Carico di aspettative e prodigo di nozioni e consigli alla volta della mia generosa nonnina, cominciai la mia tanto attesa giornata di pesca, tramutando goffamente quelle ingenue convinzioni in improbabili montature e lanci imprecisi, il tutto nell’ambito di una strategia di pesca incerta e caotica che puntava inconsapevolmente più ad un provvidenziale colpo di fortuna che ad una cattura vera e propria.
Solo a fine giornata, dopo avere esaurito entusiasmo, energie, bigattini e autostima, mi resi conto di quanto fossi lontano dalle mie aspettative, di tutto quello che mi mancava e che non sapevo proprio come e dove andarlo a cercare. Avevo solo 10 anni, in fondo.
Anche quel giorno, quindi, come in tanti altri, mi accinsi a ritrarre dal fondo del lago il mio retino vuoto, lanciato per primo e carico d’orgoglio ad inizio giornata come gesto meccanico e scontato di chi sa per certo che servirà.
Fu in quel momento che ad orecchie basse, inutilmente consolato dalle parole amorevoli della nonna che cercavano di infondermi un po’ di conforto, vidi arrivare un pescatore “grande”, come li chiamavo io, e che veniva verso di noi. Mi salutò, intuì la situazione in un istante e mi chiese cosa avessi preso in tutto il giorno. Il mio retino vuoto sulla sponda era già la sua risposta, io bofonchiai qualcosa strozzato dalla frustrazione di tanto impegno ripagato dal solito zero. In un istante mise la mano nel suo cestino, mi offrì i suoi quattro pesci, quattro splendidi black bass, mi salutò e scomparve tra la vegetazione, feci appena in tempo a dirgli grazie.
In un attimo cambiò tutto, l’ennesima giornata nera si era trasformata nella pescata della vita, il mio incontenibile entusiasmo era tutto per quei quattro pesci, non grandi ma pur sempre quattro, un risultato strabiliante da poter cavalcare gloriosamente tra genitori, parenti, amici e compagni di classe per giorni.
Un autentico trofeo, da rimirare orgogliosamente per tutta la serata.
Oggi, passati più di venticinque anni da quel giorno, mi sono perfezionato, mi sono informato, mi sono attrezzato, ho recuperato e conquistato caparbiamente ogni singolo tassello di quel puzzle, ancora incompleto, che mi permette di andare a pescare pensando di poter prendere in qualche modo sempre qualcosa.
E così quel giorno di un mesetto fa, in un laghetto della zona, il mio retino alla fine di un’ottima e appagante giornata di pesca, contava otto belle trote in più oltre alle quattro già promesse alla mia dolce consorte.
Alla mia destra, accompagnati dai relativi adulti, due bambini, che in qualche modo tentavano di coltivare la loro incerta e a tratti irruenta passione, ma, come spessissimo accade, con scarsi risultati.
A tratti, non filtrata dagli schermi automatici di un adulto, alcuni commenti lasciavano filtrare la loro ammirazione per le mie catture, il loro piccolo e deluso desiderio di successo.
Un istante, quell’immagine già vista, la mia occasione, destino… diedi 4 trote ad ognuno, increduli, ma un secondo dopo euforici, i loro occhi, i loro sinceri pensieri ad alta voce, la mia romantica storia così tramandata e rivissuta per quei due nuovi sogni alimentati da incontenibili passioni infiammate dal mio debito saldato.


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