Racconti

Il miracolo del fiume

Di Stefano Zucchetti pubblicato il 02/04/13

In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era una massa senza forma e vuota; le tenebre
ricoprivano l’abisso e sulle acque aleggiava lo spirito di Dio...
(dal Libro della Genesi)

Il fiume riluceva nell’aurora. Scorreva tra le sabbie e le pietraie sdoppiandosi per poi riunirsi e disunirsi ancora. A tratti accelerava, veloce come i torrenti che esso stesso era più a monte, scavando senza sosta le sue sponde con liquide braccia possenti e a tratti rallentava allargandosi come a riprendere fiato. Ma qui, in quest’angolo nascosto di pianura, il fiume, stanco, sembrava quasi essersi fermato finalmente a riposare nel suo letto divenuto accogliente, un piccolo lago lucente accarezzato appena da una brezza leggera. In questo specchio apparente tanti pesci d’oro e d’argento disegnavano una splendida danza di cerchi infiniti, tracciando nella penombra rapidissimi archi lucenti. In una musica magica, fatta di salti e di spruzzi, muti cantavano incessantemente, meravigliosamente: vita vita vita vita vita… tuffandosi e rituffandosi nell’aria.
Sorgeva il sole e con lui si scatenava la gioia di assistere una volta ancora al suo risveglio e l’ebbrezza di esserci già bastava da sé a riempire tutta quanta la testa, la pancia e il cuore. Enrico stava dritto di fronte alla scena, sferzato da una grandine fitta di emozioni e pensieri, incapace di muovere un passo, estasiato da quella natura esultante. Trafitto dal primissimo raggio, l’unica cosa che gli riusciva di fare era starsene lì impalato a guardare. Mai prima d’allora il fiume l’aveva colpito così. Possibile che a mezz’ora soltanto da casa ci fosse davvero quel mondo prodigioso? Ma quale casa! Quale umano affannarsi nella continua ricerca di un senso! Questa era la sua vera casa e questo era il vero senso. Questo era ciò che, senza saperlo, aveva a lungo cercato. E dentro di sé adesso avvertiva profondamente di esserne parte. Improvvisamente si sentiva talmente vivo da chiedersi se fino ad allora avesse vissuto realmente o cos’altro. Vivere adesso e certamente un domani morire, così, semplicemente, perché così è. Ogni cosa, anche la più piccola cosa, assumeva per sempre un significato nuovo. Esserci solo questo importava.
Il miracolo del fiume era lì ad attenderlo anzi stava dando addirittura una festa in suo onore, nel luccichio di mille e mille diamanti portati dalla corrente, nel tripudio danzante dei pesci, sotto l’azzurro infinito e trionfante del cielo accompagnato dal verde e fremente crescendo delle fronde scompigliate dal vento.

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Enrico rimase ancora a fissare l’acqua e i ciottoli chiari sul fondo. La sua fidata canna era lì appoggiata a un tronco alle sue spalle, la stessa che da tempo non era più un semplice strumento per pescare bensì una specie di lunga verga fatata con la quale evocare e incontrare meravigliose creature altrimenti irraggiungibili. Poi, come assecondando un comando perentorio e improvviso, una forza irresistibile e matta, si voltò di scatto, guardò la canna ma la lasciò dove stava e prese ad avanzare di un passo e quindi di un altro, di un altro e di un altro ancora. L’acqua gli arrivò sino alla cinta dei pantaloni e quindi allo stomaco, all’ombelico. E si riversò in lui,
tracimando in tutta la sua anima. Improvvisamente gli parve, pur non potendo riuscire a
scivolare via con lei, di aver già preso a discendere insieme a lei sino al mare. Il suo
respiro si fece affrettato. Ma no, non pensava alla assurdità del suo gesto né lo sfiorava
l’idea che avrebbe potuto anche lasciarci le penne, non doveva renderne conto a
nessuno. Enrico ed il fiume, il fiume ed Enrico, solo questo c’era.
Un giovane fiume che nel medesimo istante ma altrove era anche sorgente e già mare, e
un giovane uomo che al tempo stesso era ancora bambino e già vecchio.
In quell’attimo avvertì con tutto il suo essere, tutti quanti i ricordi e i sogni, tutta quanta
la sua esistenza, passata, presente e futura, saltare impazzita. Mille immagini e volti
guizzarono dentro di lui urlandogli: vivi! Vivi! Viivii! Sì sì sì, sino alla fine del tempo!
Solo questo conta.
Come in trance fece ancora un passo ma c’era lo scalino, che superò. L’acqua gli arrivò
immediatamente e inaspettatamente dalla pancia alle narici, la corrente fece il resto
smovendogli i sassi da sotto alle suole. Tossì, inghiottì, dio solo sa quanto.
Arretrato a fatica di un passo, annaspando come un pazzo con le braccia e ritrovando il
fondo sotto ai piedi un attimo prima d’annegare, incerto e intontito, finalmente cacciò
fuori la testa dall’acqua. Il vento gli si infilò giù per la gola, gonfiando come mantici i
polmoni, facendolo precipitare indietro, più indietro, fino all’istante in cui aveva
provato quel primissimo, terribile e meraviglioso dovere, fino al momento in cui il
mondo, allo stesso modo, l’aveva accolto e l’aria era entrata nel suo petto con violenza e
sofferenza comandandogli di vivere. Enrico trasse fuori dal profondo di sé un respiro,
un soffio breve e cupo, che subito si trasformò in un grido acuto, una specie di vagito, e
poi in un pianto di gioia e insieme di dolore.
Nei suoi occhi spalancati si agitavano gli opachi e lontani fantasmi d’acqua, di sangue e
di luce che aveva cercato, che aveva evocato.

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Era troppo. Gli girava la testa e gli parve di essere proprio sul punto di mollare. Però
non doveva, non poteva svenire proprio allora. Respirò di nuovo, con tutto se stesso, a
pieni polmoni, ancora e ancora e ancora.
Quel respiro era lui stesso, Enrico. Terra, acqua, fuoco e aria. Anima e corpo. Questo
era. Nulla di meno nulla di più.
Arretrò di qualche metro, sentendosi improvvisamente fradicio e infreddolito come un
pulcino appena uscito dal guscio, e si accasciò sulla riva.
“La terra è nostra madre,” ascoltò la propria voce sussurrare, “il nostro mondo, l’unico
possibile. L’ossigeno ai nostri polmoni e il fuoco del sole ci mantengono accesi. Come
fiume è il tempo delle nostra molteplice ma in fondo unica vita, il fiume che scorre dalla
sorgente sino al mare. L’infinito è nostro padre, di aria e di nuvole, è l’anima che soffia,
dal mare di nuovo alla sorgente chiudendo il cerchio, dentro noi, fuori da noi,
tutt’attorno, unico alito, unico spirito.”
Stremato ma felice come non mai, raccolse la canna e la borsetta delle esche artificiali, e
si incamminò lungo la riva. Tremava come una foglia però non aveva poi tanto freddo.
Un bel sole di maggio, ora mai alto sul bosco, e un caldo venticello di scirocco erano
venuti in suo soccorso, avvolgendolo e prendendo ad asciugarlo amorevolmente. A
scuoterlo era l’emozione che ancora si agitava dentro di lui con la forza di mille
tempeste.
Percorso un lungo tratto e superata una larga ansa, d’improvviso scorse la sagoma di un
pescatore. Coprì ancora un centinaio di passi e infine lo riconobbe.
L’uomo in piedi in mezzo al fiume era il vecchio Guido, il quale accortosi di lui, lo
salutò con un cenno della mano e quindi si diresse verso la riva ad accoglierlo.
- Ciao matto! Che ci fai qui? Ma che hai combinato?! Sei bagnato da capo a piedi! Sei
scivolato nel fiume? -
Enrico lo fissò un istante e poi rispose - Mah… a me sembra che sia stato il fiume
intero a scivolarmi dentro. Che per poco annegavo! -
- Ascolta, la prossima volta almeno mettiti prima il costume da bagno o un bel paio di
stivaloni come i miei e vedi bene di fermarti prima di finire completamente a mollo!-
Sorrisero entrambi e si sedettero sulla riva, che lì declinava più gentilmente, seguendo i
gradini di ghiaia e di sabbia, disegnati magistralmente dall’ultima piena.
- Tu l’hai sempre saputo, eh? - domandò Enrico.
- Saputo che cosa? -
- Del miracolo del fiume, del suo segreto… -

4
Il vecchio sorrise di nuovo e rispose - E perché diavolo sarei qui dalle cinque del
mattino altrimenti?! Ma sì, certo che lo conosco, lo conosco il miracolo del fiume
come l’hai chiamato tu...-
Per un lungo, lunghissimo attimo, tacquero entrambi. Osservavano l’acqua scorrere, qui
più lenta, là più veloce e i salti e le bollate dei pesci.
Il fiume era di fronte a loro e dentro di loro, respiravano insieme scandendone il tempo
circolare, scendendo, senza fretta, verso il mare.
Guido si alzò, prese la canna e si diresse a passi svelti verso l’acqua e, giunto quasi a
metà del fiume, si rimise a pescare.
Enrico lo osservava con la stessa ammirazione della prima volta. Era assai piacevole
vederlo lanciare e accompagnare la lenza nella corrente con tanta bravura e poi ferrare
all’improvviso con tempismo perfetto incocciando in un bel pesce. Ne contrastava la
difesa con pazienza e abilità, senza forzare troppo né troppo poco, e quindi, tirandolo
piano a sé, lo sollevava appena nel palmo della mano, con una carezza strana, e
liberatolo dolcemente dall’amo, lo restituiva subito alla corrente.
Ne prese ancora uno, poi un altro e infine un cavedano splendido dalla schiena scura e i
fianchi dorati, che a occhio superava abbondantemente il chilo. Quindi ritornò a riva,
poggiò la corta bolognese sul greto, con un gesto attento e premuroso, quasi che stesse
riponendo una bacchetta di cristallo in un astuccio. Guardò di nuovo un attimo il fiume,
nel sole pieno del mattino, e poi Enrico. Si trovarono così occhi negli occhi poiché
Enrico non aveva mai smesso di fissarlo in viso.
- Ma chi ci sarà mai di più matto e fortunato di noi vecchi pescatori, èh? - esclamò
allora Guido rompendo l’incanto imbarazzato della scena.
Enrico continuò a fissarlo senza parlare, sul volto il sorriso più felice, più intimamente
vero che si possa immaginare. Senza aprire più bocca, si alzò e si avviò lungo la riva del
fiume, apparentemente perso nei propri pensieri. Quindi, allontanatosi di qualche
centinaio di passi, improvvisamente si fermò e si girò verso l’anziano pescatore e gridò
forte il suo nome. E quando questi si voltò verso di lui, gli mostrò sorridente la canna e
alzatola al cielo, l’agitò in un saluto. Stretta nel palmo oltre a quella c’era, ancorché
invisibile, la più preziosa e rara delle cose.
(Racconto estratto dall’omonimo romanzo inedito)


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