Racconti

Il vecchio e il fiume

Di Sergio Farina pubblicato il 12/02/12

La casa colonica è pigramente adagiata nella golena, fra il primo argine, quello basso, e il secondo, più alto e massiccio, posto a protezione della campagna. Nonostante la posizione sopraelevata, rispetto al piano ricoperto dai pioppi, i muri di mattoni, rossi e spessi, evidenziano diverse linee più o meno scure lungo il perimetro, testimonianza delle periodiche piene che la casa, ed i suoi abitanti, hanno dovuto affrontare. Un fiume che si è divertito, nel tempo, a giocare all’imbianchino, lasciando un segno indelebile sui muri e sulle vite di questa gente. É sera tarda. Tutta l’abitazione è immersa nell’oscurità, c’è solo un piccolo lume a olio che illumina, nascosto dalle tende, la stanza al primo piano. La luce giallastra e tremolante è l’unico puntino luminoso della grande costruzione. Il Po scorre poco distante, placido e sornione dentro il letto naturale. Le grida di dolore della donna non sembrano disturbarlo così come la corrente sembra ignorare il tono concitato dell’esperta levatrice, tutta intenta a confortare e incitare la donna. Poi la puerpera tace, la sua voce sofferente è prima coperta e poi sostituita dal pianto secco del bambino, il suo primo pianto. In quel preciso istante, per un’infinitesimale frazione di secondo, il fiume trasale e la corrente sembra fermarsi.
Si chiama Gigi, è appena nato, e questo è il suo fiume.

L’argine è un tripudio di colori. L’arrivo della primavera ha dipinto le banchine in ogni sorta di sfumatura del verde. Piante di ogni genere si arrampicano dalla terra, bramose di luce e di calore nell’esplosione vegetale tipica della stagione. Il bambino arranca sulla bicicletta seguendo traballante la sommità arginale appena ricoperta da uno strato sottile di stabilizzato e dal residuo di una vecchia distesa di ghiaia. Schiva i ciuffi di erba e le creste lasciate nella terra, dopo le ultime piogge, da mezzi ben più pesanti. Ha i capelli arruffati, ribelli, una colorata maglietta a righe, i calzoncini corti e le scarpe troppo grandi, forse ereditate dal fratello maggiore. E’ piccolo, minuto quasi gracile ma tutta la pedalata esprime una vivacità incontenibile, dettata dalla spensieratezza dell’età e dalla gioia per l’estate imminente.
Si chiama Gigi, ha 9 anni e questo è il suo fiume.

Lascia la bicicletta poco sopra uno stretto sentiero che scende verso il Po incastonato fra i grossi sassi della prismata e gli arbusti. In un’ipotetica vista dall’alto tutta l’argine apparirebbe percorsa da decine di questi stretti sentieri. Sono le vie tracciate dai pescatori, liberate dalla vegetazione, scavate a gradini nella morbida terra dell’argine, sentieri puliti e lucidati manco fosse l’auto nuova o il salotto di casa. Un dedalo di accessi gelosamente conservati e custoditi. Ognuno ha il suo e ogni pescatore si guarda bene dal percorrere quello di un altro, una posta per uno, tramandata da padre in figlio, in una muta e rigorosa divisione del fiume e dei suoi pesci nella solidarietà che solo la fame e le tragedia di una guerra da poco finita
possono lasciare in eredità. Gigi è troppo piccolo, non ha ancora il “suo” accesso, usa quello degli altri, magari quelli dei pescatori più anziani, gli stessi che gli regalano qualche amo e qualche piombo, divertiti dalla sua vivacità e affascinati dalla sua voglia di imparare e quindi chiudono un occhio, spesso anche due, su quella piccola peste dai capelli perennemente spettinati e dal viso vispo e luminoso punteggiato dalle efelidi. Ha fretta Gigi e si vede. Zampetta sui massi con insospettabile agilità tenendo fra le mani una corta canna in bambù e un vecchio secchiello arrugginito dove con tutta probabilità riposano ignari alcuni vermi sottratti nel letamaio del vicino. Sembra un equilibrista con la canna che funge da bilanciere. In pochi attimi è sul fiume, srotola la lenza attorcigliata sulla canna, innesca un grosso verme su di un amo spuntato e lancia nel giro d’acqua lasciando correre verso valle il vecchio galleggiante dalla vernice scrostata. Pochi attimi e la pallina rossa che sovrasta la sottile antenna sparisce, alla ferrata veloce segue la breve curva del bambù prima che una grossa lasca schizzi fuori dall’acqua, rompendo la superficie in mille spruzzi traslucidi che brillano nel riverbero del sole. Ride, è felice Gigi, è sul fiume e pesca, cosa può volere di più?

Il fiume gli scorre davanti, così come gli anni. Sono transitate mille correnti, sono saltati mille pesci. Ora una stretta e sottile striscia di asfalto grezzo ricopre l’argine. In lontananza, poco più a monte, le prime ciminiere sono state ricostruite sulle macerie dei bombardamenti. Il fischio di un treno anticipa di poco lo sferragliare delle rotaie sul ponte ferroviario che riattraversa il fiume.
Si chiama Gigi ha 19 anni e questo è il suo fiume.

Non ha continuato a studiare, pochi soldi in casa e poca voglia in testa. I pantaloni sono più lunghi, la camicia bianca portata rigorosamente semi aperta, fra le labbra pende una sigaretta, serve a darsi un tono, a sentirsi più grande. Gigi lavora già, nella grande fabbrica sopra la curva del fiume. Una fabbrica che da gualche tempo, nel nome del progresso gridato da pochi e nell’indifferenza di molti, ammorba l’aria e avvelena l’acqua. Sull’argine ci sono ancora tanti sentieri, meno di un tempo, ma a vederli dall’alto danno ancora l’impressione di una fitta rete di capillari che porta vita e ossigeno all’argine. La vita è cambiata, si è scrollata da dosso la guerra ed ha ripreso a correre veloce risucchiando tutti e tutto in un vortice di cui non si vede la fine. Bisogna produrre e consumare, bisogna mangiare più di quello che serve, bisogna possedere più di quello che necessita. C’è una tragedia immane da dimenticare e da dimenticare in fretta, e la paura di una nuova fame e di nuova miseria portano tutti a correre, ad accumulare, a produrre, a consumare. Poco importa se correndo si calpesta l’aria, l’acqua, la Natura. Gigi ha la ragazza, ma i nuovi interessi guidati dagli ormoni non lo distraggono del tutto dalla sua più grande passione. Ha fatto l’amore in fretta, quasi distrattamente, stretto fra i sedili del vecchio 500 decapottabile, le mani sul seno della ragazza e la mente sul fiume. Un bacio di fronte al portone di casa e poi via sull’argine. Nelle mani adesso c’è una lunga bolognese, bella nel suo splendido color giallo, pesante ma rassicurante nelle fibre di fenolico, quasi più erotica e piacevole del seno che ha palpato poco prima. La sacca di pannocchie appena rubate nel campo di un ignaro contadino, appesa sul fianco, trasmette la stessa pesante sicurezza della canna. Un attimo ed è sul Po, ci sono ancora un paio di ore di luce in questa fine estate calda e afosa. Ai bordi della sassaia, sotto il lungo pennello che, complice la secca, entra per molti metri dentro il fiume, la temperatura è ancora più fastidiosa e i sassi restituiscono, e con gli interessi, tutto il calore immagazzinato durante il giorno. Gigi non ci fa caso, è troppo occupato a scegliere il chicco più sugoso e appetitoso da infilare sul generoso amo bronzato. Il tozzo galleggiante gira un paio di volte su se stesso, sballottato e frastornato fra l’azione dell’olivetta che scende verso il fondo e il rigirarsi senza direzione della corrente della ”morta.” Poi si stabilizza, l’olivetta ha toccato il fondo, il nylon in eccesso spancia e il tappo si reclina soddisfatto fra i piccoli gorghi, in paziente attesa, proprio come Gigi. Il sole va nascondendosi dietro l’argine veneto, l’arancio del tramonto si trasforma nel rosso acceso che infiamma l’orizzonte, l’ultima vampata del falò del giorno che cede il passo alla notte. Il galleggiante ha un sussulto, scodinzola sull’acqua come un cane felice di vedere il padrone, poi si rizza e parte, animato di vita propria, verso il buio del fondale. La canna piega, il fenolico grida per lo sforzo coperto dal pianto della frizione. Lo 0,30 del robusto Ofmer grigio è una sufficiente sicurezza. La carpa spancia rumorosamente un paio di volte prima di arrendersi nel guadino. E il suo ultimo giorno, stanotte non dormirà nella sua tana ma nella casa di Gigi, in attesa di finire, come tante altre, su di una tavola apparecchiata.

L’argine adesso è più alto di una banchina. L’alluvione del 1951, quella che ha devastato il Polesine, ha costretto ad alzare le protezioni e a ingrossarle. La fabbrica è sempre sopra la curva del fiume, ha continuato a espandersi e ora è più grande della stessa città, e ha continuato a vomitare veleni. Le anse e le curve che smorzavano la forza del fiume sono sempre più dritte, e sono quasi sparite anche le ampie golene dove le piene potevano sfogare la rabbia e depositare il fango. Ruspe ed escavazioni selvagge hanno stuprato il letto del fiume, con il solo risultato di aumentarne la forza e la collera. Alzare gli argini e allargarli potrebbe, fra poco tempo, non bastare più, però bisogna continuare a produrre, bisogna continuare a consumare il più possibile, anche il superfluo. Alcuni lo chiamano sempre progresso, in tanti sono ancora indifferenti, più attenti a possedere l’ultimo modello di TV color o i primi cellulari. In pochi, ancora troppo pochi, cominciano a chiamarlo suicidio.
Si chiama Gigi ha 49 anni e questo è il suo fiume.

I capelli più radi sono tenuti indietro da un’abbondante dose di gel che danno una sensazione di ordine forzato. Lavora sempre nella stessa fabbrica, la ragazza del malandato 500 decapottabile ora è sua moglie, gli ha dato due figli e ormai si è rassegnata a vederlo partire a orari improbabili per andare sul fiume, ha ormai capito che quella strana luce negli occhi sono il sintomo di una malattia che non si può curare, può essere calmierata per qualche tempo questo si, ma non può essere soffocata o contrastata. Quando quella luce si accende negli occhi di un pescatore c’è solo un modo di spegnerla, e questo modo e il momento lo decide qualcuno di molto in alto, qualcuno che non è lei. Sono occhi che la guardano mentre gli parla ma non sono li, sono sul Po. I colori dell’alba autunnale dipingono l’argine, purtroppo, da troppo tempo, sono molto simili al colore dell’acqua. I sentieri che portano al fiume sono sempre più rari. Gigi ha il suo, nel punto migliore del lungo rettilineo che corre a valle della curva secca disegnata dal fiume. E’ uno spot straordinario. La secca, più o meno profonda a seconda della stagione, si protende verso l’acqua alleandosi con il gomito acuto che devia il flusso principale verso l’esterno, Questo produce una corrente delicata su di un fondale di oltre quattro metri. Un punto ideale per tentare il re del fiume. I bigattini adesso brulicano numerosi nella sacca di tela, sono lontani i tempi dove le piccole larve avorio si compravano poche decine alla volta nel negozietto di giocattoli del paese, lo stesso che vendeva qualche galleggiante variopinto e altri pochi attrezzi da pesca. La canna in carbonio splende nella prima luce d’autunno. L’umidità le dona l’aspetto di uno stallone nero, sudato, vibrante e pronto alla corsa. Due grosse palle di pastone di pane e farina di mais rompono la corrente. Qualche minuto e il pesce è sotto, attirato dall’odore pungente del formaggio e dalla canapa della pastura così come dal dimenarsi frenetico delle decine di larve fiondate sulla linea di pesca. L’acqua è decisamente poco invitante, il colore è ingrigito e appiattito da cento sostanze estranee, qualche chiazza di schiuma gialla e maleodorante corre impunita e spavalda sulla schiena della corrente. Il tappo affonda secco, c’è solo un pesce capace di tanta velocità. C’è solo un pesce che rapisce il tappo in modo così secco, quasi una fucilata. Ci vuole tutta l’attenzione di Gigi per rispondere in tempo alla “fucilata”. Ci vuole tutta l’esperienza accumulata in anni di pesca per guidare il riottoso cavedano fra le maglie del capace guadino alla fine del lungo palo telescopico. Il pesce è slamato con cura, è grosso, ha gli occhi gialli e lo sguardo sorpreso di chi non si capacita di essere stato fregato. Il colpo secco e preciso dello slamatore lo libera dal piccolo uncino di acciaio, la rete si adagia sull’acqua con il bordo più largo appena sommerso a indicare l’uscita allo sbalordito cavedano. Nessuno di questi tempi si sognerebbe di mangiare un pesce preso in queste acque. Una scodata e l’incredulo “occhi gialli” torna a nuotare nel fiume, Gigi non sa che quello sarà il suo ultimo cavedano del Po.

L’argine e ulteriormente “ingrassata”. L’asfalto è curato, largo, comodo. E un asfalto che non conosce più il peso delle macchine ma solo le ruote di rari ciclisti. Ogni accesso, anche quello della piazza, è sormontato da un appariscente cartello di divieto di transito. I sentieri non ci sono più. In nome di non si sa quale logica il fiume è stato tolto ai pescatori, a quelli cioè che più lo amavano e che vigilavano sulla sua salute, quelli che controllavano chi e per cosa ne percorreva gli argini e i sentieri. La conseguenza è la spaventosa e intricata selva che si è sviluppata sugli argini, argini dove ora, senza più decine di occhi che vigilano, scorazzano impuniti bracconieri, inquinatori vari e delinquenti comuni.
Si chiama Gigi, ha 82 anni e questo è il suo fiume.

Pedala curvo sulla bicicletta, forse per il peso della sacca, forse per il peso degli anni. I capelli, pochi e bianchi per la verità, non sono più costretti dal gel, e sono tornati disordinatamente arruffati liberi di ubbidire solo alla brezza dell’alba o al soffio del tramonto. E’ rimasto solo Gigi. La moglie se n’è andata qualche anno prima, i figli lavorano troppo lontano, non c’è nessuno a preoccuparsi di quel vecchio pescatore un po’ orso e taciturno che passa il suo tempo sul Po invece di oziare in un bar fra vino e carte da gioco.
Ha il volto cotto dal sole, segnato dalle esperienze della vita e dagli anni. E magro ma possiede un’insospettabile energia per la sua età rafforzata da una passione contagiosa, quasi una smania che lo porta ogni santo giorno, con ogni stagione, sul fiume.
E’ un inverno ancora sopportabile nonostante il Natale sia molto vicino. Il freddo non punge la faccia e le mani, in assoluto il periodo migliore per sfidare i grossi barbi del fiume senza il disturbo del pesce di piccola taglia. A dire il vero non si è ancora abituato. E’ difficile abituarsi alle piccole e rugose scaglie dei barbi europei quando si è toccato per anni quelle verde smeraldo dei pighi e quelle lucenti delle savette. Ed è altrettanto difficile abituarsi al muco di quegli orrendi pesci piatti arrivati chissà da dove e portati da chissà chi piuttosto che al guizzare argenteo di una lasca o al tonfo sordo di un cavedano in caccia. Nonostante tutto il richiamo del fiume è troppo forte, quella lunga astina rossa che solca la corrente, prima di sparire attirata da chissà quale forza, è l’unica emozione che la lunga vita gli ha lasciato e non gli ha mai lesinato. Il moderno abbigliamento tecnico tiene le vecchie ossa al riparo da freddo e umidità e l’odore della pastura rossa gli tiene compagnia, insieme ai quei grossi pesci con i baffi che ora affollano numerosi e chiassosi la nassa. E’ una giornata particolarmente favorevole. Il pesce mangia convinto. Si ferma un attimo Gigi, per gustarsi una sigaretta, per assaporare fino in fondo la bella sensazione di una giornata di pesca favorevole. Si appoggia su di un grosso sasso piatto, se i sassi palesassero l’età sarebbe molto vecchio, forse uno dei primi posizionati a protezione delle sponde. Ha la superficie levigata dal sole, dal vento e dalle intemperie, a guardarlo bene si possono scorgere le stesse rughe che solcano il volto del pescatore. Un debole refolo d’aria sposta il fumo che sale lento dalla sigaretta, attraverso il fumo arriva intermittente la visione della corrente che continua la sua corsa verso il mare. Si sente bene, ha il viso in pace, la posizione del corpo indica una grande tranquillità, una perfetta serenità interiore, serenità di chi ha vissuto una vita lunga, non senza inciampi e sofferenze, che però è valsa la pena vivere, specie se la stessa vita ti è capitata di fianco al Po.
Lo trovano così, nella stessa posizione, solo un paio di giorni dopo, hanno cominciato a cercarlo allertati da uno dei figli che ha fatto suonare a lungo e senza risposta il telefono di casa. Il posto l’hanno indicato alcuni ragazzini del paese che ben sapevano dove pescava.
Nel portafoglio, custodita dentro la licenza di pesca, una vecchia foto in bianco nero stropicciata e ingiallita dal tempo, ritrae un bambino dai capelli arruffati, indossa una maglietta a righe e i calzoncini corti, il viso punteggiato dalle efelidi.

Si chiamava Gigi, aveva 82 anni, e questo è il suo fiume.


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