Racconti

La seppia del Santo

Di Segio Farina pubblicato il 29/04/09

primo classificato Amarcord 2009

 

Mio padre era un trasfertista, nome altisonante che molto più semplicemente indicava una categoria di saldatori itineranti, sempre in viaggio da un cantiere siderurgico all’altro ad inseguire il lavoro, lo stesso lavoro che portava lontano da casa e dagli affetti della famiglia. I cantieri duravano mesi, qualche volta anni. Io e mia madre lo seguivamo, questo significava traslochi frequenti e facce nuove all’inizio di ogni anno scolastico, nessuna possibilità di affezionarsi alle cose o alle persone. Ero un bambino piuttosto gracile,  difficile crederlo per chi mi conosce oggi. Un anemia ereditaria e delle tonsille capricciose mi avevano plasmato un fisico dalla salute ballerina, dove batteri e virus trovavano terreno fertile, il tutto accentuato da uno sviluppo clamorosamente in ritardo. In attesa che muscoli e barba si decidessero a fare la loro apparizione l’unica cura valida, caldamente consigliata dai medici, era “cambiare aria”. Quel 1975 ci aveva portato a Brindisi. Finita la scuola si era affittato un piccolo appartamento in un altrettanto piccolo paese sul litorale fra Brindisi e Lecce, abbastanza vicino per dare modo a mio padre di recarsi al lavoro e nello stesso tempo garantire a me qualcosa in più dei soliti quindici giorni di ferie a stretto contatto con i benefici influssi di acqua salata e sole. Il paese si chiamava San Gennaro, il nome di un Santo partenopeo per un borgo pugliese, uno sparuto gruppo di case bianche aggrappato agli scogli, in uno dei più suggestivi tratti del basso Adriatico.

Le poche case svettavano su un ridotto promontorio quando questo riprendeva il suo posto di fronte il mare, alla fine di una lunghissima lingua di sabbia sovrastata da una alta parete di tufo. Il colore del tufo, giallo pallido, poteva confondere l’osservatore distratto che si trovasse a guardare la costa dalla barca, tanto da poterlo indurre in errore pensando di trovarsi di fronte alle ben più famose scogliere di Dover anziché nel Salento. La scarna popolazione residente era per lo più composta da pescatori e dalle loro famiglie. Le case, tutte tinteggiate in chiaro a proteggere l’interno da un sole estivo particolarmente invadente, erano anche prive di tetto spiovente, chiara indicazione sulle scarse probabilità che la neve, in inverno, potesse fare la sua comparsa. Le case arrivavano fino a ridosso dell’acqua, lasciando spazio solo alla stretta strada polverosa prima degli scivoli in cemento, paralleli ed allineati come i denti di un pettine, dove gli argani elettrici servivano per porre  in secca le piccole imbarcazioni adibite alla pesca. Le traversine di legno ingrassate, dove le chiglie delle sette metri entrobordo scorrevano agevolmente, richiamavano alla mente, complice il mescolarsi dell’odore di grasso e gasolio, una piccola stazione di periferia con barche e reti a sostituire locomotive e carrozze. Il turismo era lungi dall’arrivare in queste piccole gemme incastrate nella costa come peli incarnati e l’arrivo dei pochi forestieri, durante il periodo estivo, costituiva uno dei pochi motivi di interesse. Il nostro minuscolo appartamento, posto al piano terra dell’abitazione sotto quella del proprietario, distava dal mare poco più di trenta metri e quando la risacca non era abbastanza rumorosa ci pensava l’odore della salsedine nell’aria e la sabbia perennemente sul pavimento, nonostante i continui sforzi della scopa di mia madre, a ricordarmi quanto il mare fosse vicino. Lo stesso mare che scandiva, in ogni sua espressione, la vita di tutti gli abitanti, pescatori e bambini in vacanza. Tre mesi possono sembrare lunghi ma io avevo trovato mille occupazioni per sconfiggere la noia, visto che non solo il televisore ma anche un semplice pallone di cuoio, erano ancora un lusso di pochi. Avevo stretto amicizia con il figlio del nostro affittuario, un ragazzone appena maggiorenne dal fisico appariscente e dal carattere solare, genuino e diretto, schietto e semplice come la terra dove era nato. Ci aveva preso in simpatia, uso il plurale perché della variegata combriccola faceva parte un altro ragazzino come me in vacanza a San Gennaro. Si chiamava Alessandro, una montagna di riccioli irriverenti su un corpicino traboccante di energia come un piccolo furetto. Era, seppur di poco, il più piccolo del trio. Veniva da Genova, anche lui come me figlio di un trasfertista collega di mio padre. Il mare ci forniva, giorno dopo giorno, decine di spunti diversi per trascorrere le ore. Da quello stesso mare, in quella lunga estate, si sarebbero formate passioni che ancora oggi mi accompagnano, la pesca e la cucina, ed avrebbero fatto capolino gli episodi scatenanti dei primi rimescolamenti ormonali. Ma andiamo con ordine. Una delle principali occupazioni era la caccia ai polpi. Angelo, così si chiamava il figlio del padrone di casa, era fortunato proprietario di una piccola imbarcazione a remi. La tecnica di pesca era semplice quanto efficace. La prima visita della giornata era al macellaio del paese per procurarci alcune zampe di gallina. Queste, opportunamente fissate ad un lungo cordino piombato, erano l’esca principe per la cattura del polpo. Si usciva a remi a circa cinquanta metri dalla costa. Ovviamente Angelo metteva ai remi me e Alessandro, ma era uno sforzo che facevamo volentieri, tanto era divertente il dopo. Trovata la posizione, su un fondale dai dieci ai quindici metri, si lasciava alla corrente il compito di spostare la barca e si calavano le zampe di gallina con l’esca che saltellava invitante sul fondale di rocce e sabbia. Stringendo il cordino fra l’ indice ed il pollice si aspettava che il polpo, attirato dal giallo dell’esca, uscisse dalla tana per un pasto facile. L’attacco del polpo era inequivocabile, il cordino diventava improvvisamente più pesante e non rimaneva che recuperare il tutto molto lentamente per non insospettire il predatore. Un polpo intento a mangiare solitamente non si accorge che viene staccato dal fondale, il difficile arrivava quando lo stesso era prossimo alla superficie. A questo punto bisognava essere lesti, afferrare la preda con la mano libera, portarla sulla barca ed ucciderla velocemente. Il fascino della pesca era tutto in questa operazione. Una volta catturato il polpo si attacca con tutti gli otto tentacoli al braccio, spruzzava il nero e cerca l’ultima difesa usando il rostro della bocca. Le prime volte qualcuno si staccava, altri sfuggivano appena toccati ma con quelli tratti sulla barca erano lotte epiche fatte di risate, di imprecazioni e di canzonature. Angelo, come tutti i locali, uccideva il polpo mordendo l’animale al centro della testa proprio fra gli occhi. Io ci avevo provato una sola volta e mio era bastato. Avevo portato i segni delle ventose sul viso per giorni. Molto più semplice sferrare un forte pungo nello stesso nevralgico punto. Nelle giornate favorevoli arrivavamo a prendere decine dei gustosi cefalopodi che poi venivano venduti, freschissimi, ai pochi turisti sulla spiaggia. Tornavo a casa sfoggiando i succhiotti sulle braccia e gli schizzi del nero sulla maglietta come un guerriero mostra ferite e cicatrici dopo la battaglia, ma ero sereno e soddisfatto. Il commercio era piuttosto redditizio, i polpi abbondanti ed apprezzati tanto che anche l’astuto macellaio, dopo le prime zampe di gallina regalate, aveva messo un prezzo sulle esche miracolose. Ricordo ancora, dopo una settimana particolarmente fortunata, che il ricavato era servito per comprarmi un paio di jeans in un lussuoso negozio di Lecce, apprezzando inconsciamente la soddisfazione di poter spendere il frutto della propria fatica e non quello della generosità natalizia dei parenti. Il negozio era frequentato perché le commesse, molto furbe e ben istruite, aiutavano i ragazzini ad indossare gli stretti pantaloni a zampa di elefante, allora non capivo la soddisfazione di farsi toccare la cerniera da una donna! La pesca del polpo non era tutto quello che quello splendido mare poteva offrire. Lo scirocco era un elemento costante in quel tratto di costa, naturale come il susseguirsi delle maree e l’alternarsi del giorno e della notte. Sullo scirocco i pescatori taravano le uscite in barca, il vento decideva quando potevi calare e quando dovevi ritirare le reti. In alcuni frangenti durava giorni. Quando il vento finalmente si placava il litorale era ricoperto da uno spesso strato di alga verde strappato dalle rocce sul fondo dalla forza delle onde. Lo strato gelatinoso e tremolante brulicava di gamberetti, grigi quasi trasparenti, non più lunghi di due o tre centimetri. In questi casi il gioco era assicurato. Si camminava dentro lo strato di alghe con un corto guadino dalla bocca molto larga. Fatto il pieno si tornava velocemente sulla riva svuotando il contenuto sulla sabbia. Poi cominciava il recupero di decine di saltellanti e succulenti piccoli crostacei, il tutto ridendo a crepapelle cercando di afferrare velocemente i gamberetti che saltavano all’impazzata alla ricerca di una impossibile via di fuga. Con le mani piene di prede si correva verso la cucina dove la mamma aspettava. Sulla tavola una larga terrina piena di farina, sul fuoco la pentola con abbondante olio. Ricordo come i gamberetti continuassero a saltare anche dentro la farina, finendo con l’accelerare l’operazione, per poi fermarsi di colpo a contatto con il liquido bollente prima di prendere un bel colore arancio. Operazione cruente e tragica per le povere ed inconsapevoli vittime, ma non dimenticherò mai il loro sapore ed il profumo che si spandeva nella cucina. Le nostre giornate trascorrevano così, dolci e spensierate, sullo sfondo di un mare amico e generoso, compiacente e benevolo come un fratello maggiore. Alla fine del paese la sabbia prendeva nuovamente il posto degli scogli. Alcune grosse dune proteggevano una piccola palude di acqua salmastra formata dalle mareggiate più violente. Una di queste, particolarmente intensa, aveva, non so come, portato numerosi cefali all’interno della palude. I cefali, non grossi ma numerosi, saltavano in continuazione fuori dall’acqua bassa cercando di capire i confini della nuova casa. Io ed Alessandro li avevamo notati la mattina presto ed era iniziata una delle giornate più fantastiche di quella estate magica. Eravamo entrati nell’acquitrino con il solo costume e le scarpette in gomma. Camminando velocemente e sguazzando con mani e piedi l’acqua era diventata ben presto scura ed i piccoli cefali erano ben visibili in superficie. Si materializzò dal nulla una giornata di corse, tuffi, inseguimenti e salti nel fango. Tornando a casa ridevamo, completamente coperti di melma, mentre nel sacco di juta facevano bella mostra di se più di ottanta cefali. Ricordo ancora lo sguardo di mia madre, stringeva gli occhi proteggendosi il viso con la mano dal riverbero del sole che tramontava cercando di capire se quel essere nero e puzzolente in compagnia di un suo simile, forse ridotto peggio, fosse il figlio o qualche strana creatura mostruosa sputata dalla palude. Fu una delle più memorabili grigliate della storia dove parteciparono molti, se non tutti, gli abitanti del paese. Angela era la sorella di Angelo. I genitori non avevano fatto sfoggio di particolare fantasia nella scelta dei nomi ma nessun altro nome poteva essere più adeguato. Angela aveva sedici anni, un fisico mozzafiato e la pelle ambrata. Il corto caschetto di capelli nerissimi incorniciava un viso perfetto sul quale spiccavano due occhi azzurri come il mare, lo stesso mare dal quale sembrava essere nata. Era ovviamente corteggiatissima ed il fratello montava su di lei una guardia attenta precisa e costante. Io però non ero un pericolo, troppo piccolo ed inerme per poter attentare alle virtù della sorella. Spesso si giocava insieme, lunghe corse sulla spiaggia e bagni interminabili. Ci piaceva soprattutto quando le onde si facevano importanti e cavalcarle diventava una tentazione troppo forte. Aspettavamo l’onda di spalle lasciandoci trasportare dalla stessa usando le braccia unite come timone e la pancia come tavola da surf. Quel giorno un’onda era stata più capricciosa delle altre ed Angela era riemersa dal gorgogliare di acqua e schiuma salva ma…senza reggiseno. Non posso descrivere l’esplosione di emozioni forti che quella visione aveva scatenato. Era stato come scoperchiare il vaso di Pandora. Ero rimasto inebetito alla vista di qualcosa di cui non capivo bene il significato, che a primo impatto mi aveva sovrastato, rimescolato lo stomaco e reso il sangue acqua. Angela non si era curata troppo dell’improvviso topless, per lei che mi vedeva ancora bambino il problema più grosso era stato aspettare che le onde restituissero il pezzo superiore del bikini. Al contrario io avevo capito perché i ragazzi più grandi erano così attirati dalle coetanee e quella notte feci fatica ad addormentarmi, con il sonno ostinatamente scacciato dall’immagine di quel seno perfetto impressa a fuoco nel cervello. A dire il vero le notti insonni non mancavano di certo. Mio padre ci raggiungeva nei fine settimana. Con il padre di Alessandro, possessore di un entrobordo cabinato di sette metri, usciva a pesca tutti i week end. La barca era fornita di qualche decina di metri di reti, oltre ad alcune nasse per la pesca delle aragoste. Il potente motore diesel permetteva escursione lontane. Io ed Alessandro avevamo chiesto infinite volte, implorando fino alle lacrime, di portarci, ma non vi era stato verso di convincerli. Il rischio che il mare cambiasse repentinamente umore era alto, una placida bonaccia si poteva rapidamente trasformare in qualcosa di meno simpatico e due ore di navigazione con onde alte e ragazzini a bordo era un rischio che non si sentivano di affrontare. Io non capivo tanta ostinazione ed il lasciarmi a riva mi sembrava un atto di crudeltà più che una decisione saggia e sensata. Partiva a notte fonde. Lo sentivo alzarsi, preparare il caffè ed ogni volta speravo inutilmente che svegliasse anche me. Il rumore del diesel che si scaldava era un ulteriore sofferenza, e riuscivo a riprendere sonno solo quando lo stesso rumore si mescolava a quello della risacca prima di sparire del tutto ingoiato dal mare. Li aspettavamo al ritorno nel tardo pomeriggio e dall’espressione dei nostri padri, a prua, capivamo subito com’era andata la pesca. Quando il mare era stato generoso aiutavo a staccare i pesci dalle reti. Pagelli, dentici e spigole quando la fortuna aveva baciato le reti; tracine, tordi e piccoli saraghi quando la pesca era stata meno fruttuosa. In ogni caso ci aspettava una cena abbondante, i pesci pregiati finivano sulla griglia, gli altri in memorabili zuppe di pesce. In quei mesi mi ero avvicinato all’apnea prendendo soddisfazione non solo da quello che c’era sopra la superficie ma anche da quello che stava sotto, un mondo per me nuovo ma altrettanto affascinante. Un vecchio manico di scopa fungeva da supporto ad una fiocina costruita e saldata da mio padre. Il legno del manico garantiva il giusto assetto in acqua mentre l’acciaio lucido ed affilato costituiva un’arma micidiale. La fiocina aveva tre punte, quella centrale a doppio uncino mentre le due laterali avevano l’ardiglione rivolto verso l’interno, una volta infilzato il pesce aveva zero possibilità di staccarsi. Quella mattina era iniziata come tante altre. Di buon ora ero arrivato nella mia zona di pesca abituale, una lunga e levigata distesa di sabbia sormontata da un paio di metri di acqua. Con il tempo avevo imparato a distinguere le sagome di sogliole e seppie perfettamente mimetizzate sul colore uniforme e piatto del fondale. Scandagliavo ampie zone, respirando con calma attraverso lo stretto tubo di plastica, cercando di distinguere ogni piccola difformità che potesse indicare la presenza della preda. Come un rapace volteggiavo lasciandomi trasportare dalla corrente, librando cullato da un acqua tanto trasparente da sembrare sospesi nel vuoto. Muovendo lentamente le pinne nere osservando il paesaggio sottostante, brullo quasi lunare, alla ricerca del mio antagonista. Nel silenzio assoluto rimanevo ore con la sola compagnia del respiro amplificato dal soffio del boccaglio e del lento battito del cuore. L’avevo vista quasi subito. Il rigonfiamento della sabbia era troppo evidente e la seppia troppo grossa per passare inosservata ad un cacciatore anche inesperto. Probabilmente era in caccia anche lei, ben attenta a tutti i piccoli pesci, soprattutto triglie, che grufolavano incessanti nella sabbia. Avevo commesso un errore. Entusiasta per la bella preda avevo dimenticato di avvicinarmi dal lato coperto ed il sole, già alto nel cielo, aveva proiettato la mia ombra proprio sulla seppia. Era scattata veloce cercando subito la profondità, dove il fondale smetteva di degradare dolcemente per buttarsi a capofitto verso il blu scuro del gradino. La prima immersione era servita per tagliarli la strada, il primo colpo di fiocina, volutamente a vuoto davanti la linea di fuga l’aveva costretta a cambiare repentinamente direzione ed a liberare uno sbuffo di inchiostro nero e denso. La seguivo deciso attento soprattutto a non perderla di vista fra i mille riflessi dell’acqua sicuro che si sarebbe stancata presto, sicuro di essere più veloce. Poi si era diretta verso un grosso scoglio isolato, l’unico scoglio sommerso di quella immensa pianura di rena. Aveva cercato riparo dove il bordo della roccia trovava la sabbia ed aveva cambiato repentinamente colore adattando il manto ai nuovi colori. Da sopra, immobile, potevo quasi percepire il respiro affannoso dal movimento dei tentacoli e la nuova speranza che era tornata ad alimentarne le probabilità di fuga. Assicurandomi che il cordino di sicurezza fosse ben fissato al manico della fiocina avevo staccato per un attimo gli occhi dalla seppia. Quando ero tornato a fissare lo scoglio avevo perso il contatto visivo. Le prime immersione erano state sicure, quasi baldanzose. Prendevo aria ed arrivavo sul fondo colpendo aritmicamente il bordo dello scoglio con la fiocina sapendo che prima o poi non avrei sentito lo scricchiolio dei piccoli granelli ma il soffice corpo del mollusco. Non la vedevo ma doveva essere per forza li. Lo scoglio non era grande, la circonferenza non arrivava a due metri e se si fosse spostata avrei notato lo sbuffo di sabbia provocato dal sifone che le serviva da propulsione. Con il passare dei minuti avevo continuato ad immergermi, sempre meno sicuro, sempre più stanco, sempre più frustrato. Ogni volta colpivo il bordo di roccia con maggior nervosismo vedendo quella che sembrava una facile vittoria trasformarsi velocemente ed inevitabilmente in una beffarda sconfitta. L’ultima immersione era durata un po’ di più delle altre. Ero arrivato ad esplorare con le dita gran parte del perimetro dello scoglio fino a sentire il bruciore nei polmoni reclamare aria fresca. Per arrivare più rapidamente in superficie avevo puntato la fiocina al centro della parte prominente dello scoglio per darmi la spinta necessaria. Arrivato a respirare mi ero accorto con stupore che la seppia era saldamente infilzata proprio al centro del ferro. Si era nascosta sopra lo scoglio e, casualmente, l’avevo colpita nel momento in cui avevo puntato la fiocina sulla roccia per la spinta di risalita. Con la maschera sollevata mi ero trovato ad osservarla agonizzare trapassata dalle punte in acciaio mentre liberava gli ultimi schizzi di nero. Per tutto il tempo era rimasta a guardarmi mentre colpivo inutilmente la sabbia intorno al suo nascondiglio, sperando nella mia distrazione, confidando nella mia inesperienza. Aveva perso, ed aveva perso solo per una enorme colpo di sfortuna, un caso, un gesto involontario di chi gli dava la caccia. Mia madre l’aveva cucinata molto semplicemente con qualche pomodoro, un filo di olio ed un po’ di prezzemolo per accompagnare un piatto di spaghetti. Al contrario di sempre quel giorno non avevo mangiato il frutto della apnea, in un inconscio estremo gesto di rispetto per un avversario irriducibile gli avevo evitato quella che mi sembrava un’umiliazione inutile. E’ stata una delle prime volte dove al gusto dolce della soddisfazione si era rapidamente sostituito il fiele amaro del rimorso. Fra quegli scogli levigati dalle onde, in mezzo a strette lingue di sabbia battute dal soffio caldo dello scirocco, ho trascorso la più bella ed indimenticabile estate che un bambino spensierato può desiderare, più di trent’anni dopo, ho cercato di rivivere quelle emozioni attraverso i ricordi e la tastiera. Di quel periodo favoloso mi rimane una sola foto un po’ ingiallita, un singolo scatto in posa “Dio del mare” mostrando orgoglioso la fiocina appena ricevuta in regalo.

Quella lunga estate mi ha lasciato tanto in dote. Si può imparare qualcosa da una seppia? Forse si, forse no. Di certo un unico episodio mi ha spiegato parecchio. La forza nel perseguire un obiettivo, il rispetto per l’avversario vinto, la stima per chi non si impegna per dare soddisfazione alle proprie passioni ma combatte per la vita stessa. Quella seppia mi ha insegnato tanto: tenacia, rispetto, ammirazione ma soprattutto un infinito amore per il mare e la gioia di viverlo pienamente senza i problemi e gli assilli dell’età adulta. Sono tornato su quella spiaggia anni dopo, fresco sposo, in una tiepida giornata d’inizio estate. Camminando sulla battigia, con i jeans arrotolati, ho inseguito quelle sensazioni attraverso il contatto dei piedi nudi sulla sabbia compatta e bagnata. Ho cercato di dare nuova linfa ai ricordi respirando l’aria salmastra che il mare portava. Ho sperato che le piccole onde sulle caviglie aiutassero ad aprire nel cervello cassetti chiusi da troppo tempo. Non è servito, non tanto per il tempo passato quanto per gli anni che nel frattempo si sono sommati prima nell’animo poi sulla carta d’identità. Lo spirito del ragazzino adolescente si è perso per sempre. Ma per un attimo, guardando la distesa del mare leggermente increspato dallo stesso scirocco di allora ho immaginato la mia seppia. L’ho rivista, mimetizzata fra la sabbia vicino a quello scoglio isolato, ed ho sentito qualcosa, una sensazione indefinita e piacevole molto vicino alla felicità.

 

 

 


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