Racconti

Una notte speciale

Di Serena Bragante pubblicato il 16/04/09

Terzo classificato 4° edizione Amarcord.
Si palpava nell'aria quando papà doveva andare a pescare, le ore che precedevano la sua partenza erano strane, direi quasi irrequiete, c'era troppo movimento per il cortile: con un sorriso impresso in volto papà iniziava il suo via vai tipico dell'occasione: garage, auto, casa. Tirava fuori la sua valigetta verde dal mobile che stava in garage e si sedeva su una sedia, fuori in giardino, cercava alla bell'e meglio di riordinare un po' quel caos che irrimediabilmente usciva da quella scatola delle sorprese: fili di Arianna, ami diritti, cagnotti trasformati in mosche e mosche trasformate in scheletri, stracci infeltriti, odore di pastura. Sistemava le canne, le puliva, le lucidava, provava il mulinello di ognuna, scavava buche nella terra umida alla ricerca di vermi se non aveva già comprato le camole al negozio. Con un giro di telefonate organizzava i passaggi per andare a prendere gli amici. Si capiva che sarebbe andato a pesca anche dal numero di "cara" che precedevano il nome di mia mamma, che senza dubbio avrebbe preferito uscire e fare acquisti tutti insieme.

Quel pomeriggio non fu diverso dagli altri, tranne che per le telefonate. Quell'assenza di conversazioni telefoniche con amici mi aveva portato a capire qualcosa, poi finalmente arrivò la conferma.

Se avete la fortuna di essere genitore provate a dire al vostro bambino che c'è una sorpresa per lui, che quella notte invece di andare a letto alla solita ora, lo porterete a pescare. Osservate i suoi occhi: in un millesimo di secondo li socchiuderà appena appena e poi li sgranerà, finché inizieranno a brillare come perle lucenti. Il suo corpo si trasformerà in una cavalletta e vi zomperà addosso, sentirete le sue braccia, trasformate per l'occasione in zampette prensili, abbracciarvi e stringervi forte. Voi, più contenti di lui, inizierete ad ondeggiare e vi sentirete leggeri come un filo d'erba. Sarà una bella sensazione per entrambi.

Credo che questa sia stata anche la mia reazione, trasformarmi in una cavalletta, mentre mio papà, filo d'erba, mi annunciò l'idea di portarmi a pesca di anguille quella notte di luglio di parecchi e parecchi anni fa... non chiedetemi quanti, non è gentile, sono pur sempre una donna ora.

Non solo saremmo andati a pescare, non era certo una novità per me, ma ci saremmo andati di notte e trascorrere una notte fuori era una cosa da grandi, pescare una cosa da maschi, quindi in una sola volta mi sarei potuta sentire adulta e un po' maschio. Una bella soddisfazione direi.

Convincere la mamma a lasciarmi andare non fu cosa facile, portare anche lei si sarebbe rivelato un errore madornale e ci saremmo pentiti appena saliti in macchina, ma, alla fine, convinta da un papà che si era finto coscienzioso, almeno per l'occasione, decise di lasciarci andare, non prima di affermare che lei non avrebbe cucinato e soprattutto pulito nessuna viscida anguilla.

Non avevo mai visto un'anguilla e sinceramente poco mi interessava cosa si doveva pescare. L'unico aspetto che non capivo era perché si doveva scegliere a priori cosa pescare, era un comportamento discriminatorio preferire una specie e sfavorirne altre, in fondo i pesci sono pesci, ma senza porgermi troppe questioni decisi che alla fine l'importante era pescare, era partire e vivere qualche nuova esperienza.

Cenammo a casa velocemente e poi salimmo in macchina, salutammo la mamma e il sole, che nel frattempo stava per andare a dormire, con la mano e partimmo spensierati.

Gli ingredienti per una notte speciale c'erano tutti: io e papà, una sera tiepida, senza luna, con stelle tante quante ne bastavano, un posto tranquillo, la mamma a casa, l'attrezzatura giusta e ben preparata.

Il Ticino ci aspettava, calmo e tranquillo, là, nell'ansa dietro il ponte di ferro che unisce due rive: quella lombarda e quella piemontese, tra i canneti, i sassi e la sterpaglia, ma in quel buio, che ormai si era fatto totale, ci accorgemmo che nella fretta nessuno si era preoccupato di prendere una torcia, una candela, non trovammo nemmeno un residuo di moccolo di cera nella valigetta di papà che spesso faceva concorrenza alla borsa di Mary Poppins. Panico, ma come affermava spesso il Manzoni la provvidenza non ci lascia mai soli e anche quella volta ci fece trovare, imboscata tra vecchie coperte, nel portapacchi dell'auto, una vecchia candela che mia mamma aveva vinto come migliore venditrice Avon dell'anno dei tempi che furono. Papà sorrise sornione, chissà a cosa era servita quella candela...e certi che la mamma non si sarebbe arrabbiata se l'avessimo presa in prestito l'accendemmo e ci sedemmo non tanto comodi su due sassi che ancora una volta la provvidenza sembrava avesse sistemato apposta per noi.

La nostra notte di pesca stava per avere inizio.

In un quel chiarore particolare vedevo solo in parte papà, ma i movimenti lì conoscevo alla perfezione: sistemò le canne, due canne robuste, lunghe 4 metri con due mulinelli altrettanto solidi e inossidabili, un monofilo bello spesso e un piombino scorrevole a sfera, fermato solo da una girella, al cui anello sistemò il finale: un filo di nylon e un amo storto a punta rientrante. Come esca papà tirò fuori da una scatoletta un lungo ed aggrovigliato vermone di terra, lo separò da altri suoi simili, lo infilò lungo l'amo per parte del corpo e poi lasciò la restante parte libera di dimenarsi. Lanciò a fondo, recuperò un poco il filo per metterlo in leggera tensione, appoggiò la prima canna sopra un puntale e ripeté gli stessi movimenti con l'altra canna, poi si sedette accanto a me e si iniziò ad aspettare speranzosi che le anguille abboccassero.

La candela, colata in un involucro di finto argento, molto più adatta a creare atmosfera ad un the tra signore eleganti che essere di vitale importanza in una notte di pesca tra vermi e anguille, produceva ombre e bagliori tutt'attorno a noi. Annullava ciò che eravamo: non più un papà e una figlia, non più cavalletta e filo d'erba, ma due forme spezzate, alte e magre, due aliti di luce riflessi sulla sterpaglia. L'acqua continuava ad essere ferma, le zanzare cercavano, in una danza senza passi precisi, di sfamarsi di noi e l'umidità si appiccicava alla nostra pelle come zucchero sciolto.

Come era lunga quell'attesa: i secondi sembravano secoli e i minuti anni luce, il sonno era in agguato e il buio non lasciava molto da osservare, solo la mia fantasia di bambina mi teneva compagnia e papà, che iniziò a raccontarmi tutto ciò che sapeva sulle anguille e sul perché si pescano di notte. Mi raccontò anche del mistero della loro nascita, di come le anguille adulte, ad un certo punto della loro vita, ovunque si trovano: fiume, torrente, stagno scendono al mare per riprodursi e che i nuovi nati prendono poi la strada del ritorno ripercorrendo a ritroso quella che hanno percorso i loro genitori i quali, dopo aver deposto le uova e assolto il proprio dovere, non torneranno più nei luoghi dove sono vissuti perché moriranno.

Che storia triste, io bambina non potevo accettare una crudeltà simile, la mia domanda arrivò spontanea come un sasso lanciato da una fionda:" ma papà, e i bambini, come nascono i bambini?". Ricordo che un gelo di imbarazzo scese su di noi, sul Ticino per poi estendersi a tutta la Lombardia e regioni limitrofe, immagino mio padre impacciato assumere in viso ogni sfumatura della scala colori. Era pronto a spiegarmi tutto sulle anguille, ma sui bambini no, quelli proprio no.

La mia domanda prese il volo e vagò senza risposta nell'etere per altro tempo, ma per scongelare l'aria del momento bastò che papà si alzò e diede un'occhiata alle due canne: prese in mano la prima, girò la manovella del mulinello e con sorpresa vide che l'esca non c'era più, qualche anguilla affamata e furbacchiona ce l'aveva fatta sotto il naso. Allora risistemò le esche e mise dei campanellini attaccati agli anelli della canna, nel caso un'anguilla avesse abboccato lo scampanellio ci avrebbe avvisato.

Non facemmo quasi in tempo a lanciare la seconda canna che la prima si mise a suonare, ecco, forse era la volta buona. La punta della canna era piegata verso l'acqua, papà prontamente tentò una ferrata veloce, netta e decisa, cercando di allamare la preda. Tirò così forte che il filo si spezzò, sentimmo un tonfo nell'acqua e ci ritrovammo inebetiti e beffati un'altra volta. Papà sorrise, senza mai perdere la pazienza, poi mi disse di aspettarlo lì buona buona seduta sul mio sasso, sarebbe arrivato subito. Si allontanò inghiottito dal buio e mi lascio con la candela. Il tempo di un battito di ciglia e i campanelli della seconda canna iniziarono a suonare all'impazzata. Di certo non potevano essere le renne di Babbo Natale, era pieno luglio, mi alzai e urlai:" papàààà. Qui suona! ". Non lo pensai allora ma lo penso ora, perché agli uomini scappa la pipì sempre nei momenti meno opportuni??. "Papààà, cosa devo fare?". Nessuna risposta. Mi sedetti, mi rialzai, mi risedetti e mi alzai nuovamente, presi la candela e la avvicinai alla canna. Il cimino della canna era piegatissimo e i campanelli squillavano ancora. Appoggiai la candela a terra e presi con entrambe le mani l'impugnatura della canna, imitai papà nei suoi movimenti visti mille volte, tiravo, alzavo la canna, facevo girare la manovella del mulinello piano piano, un po' titubante e un po' no, poi notai che il filo opponeva resistenza e allora con tutta la forza che avevo tirai verso l'alto...o la va o la spacca... all'improvviso dal filo dell'acqua uscii qualcosa che si dimenava ...e mi spaventai :"un serpente" gridai e mollai tutto.

Il mio urlo echeggiò per la valle rimbombando, papà arrivò da dietro, alternando passi veloci a salti in alto, non lo avevo mai visto così atleta. Prese la canna che stava per essere trascinata e inghiottita dall'acqua con una mano, mentre con l'altra cercò di attorcigliare il filo che il serpente, o io, avevamo lasciato andare troppo. L'anguilla serpente stava ancora lì attaccata a ciondolarsi e ad attorcigliarsi su se stessa, papà la recuperò e l'appoggiò sulla sabbia. Tagliò il finale perché recuperare l'amo sarebbe stato impossibile e mi disse di guardarla e di toccarla. Era il primo pesce che vedevo che non aveva la forma di un pesce, era un lungo cilindro color grigio e assomigliava proprio ad un serpente. Provai a tenerla con le due mani, mentre papà cercava il secchio nascosto dal buio, ma l'anguilla dimenandosi a destra e a sinistra, riusciva ad andare avanti e a sgusciare tra le mie mani. In un attimo non mi ritrovai più nulla in mano, sentii che il fiume la riaccolse tra le sue acque e quando papà tornò con il secchio, gli mostrai le mie mani nude e scoppiammo in una risata.

Mi prese tra le braccia e mi disse "ci riproviamo?" e di nuovo eravamo cavalletta e filo d'erba.

Si sa, la pesca produce fatalmente storie e leggende in gran quantità: pesche miracolose e prede di dimensioni straordinarie non si contano. Figuriamoci cosa non ci siamo raccontati noi, pescatori di anguille, in quella lunga notte speciale trascorsa davanti alla luce di una candela Avon, sgranocchiando pop corn e bevendo coca cola in attesa di qualche cattura.

 

 


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