Itinerari Italia

Piave: acqua azzurra e Marmorate

Di Simone Tanturli pubblicato il 29/10/09

Da tre anni a questa parte trascorro una settimana delle mie ferie estive in quel di Erto nella valle del Vajont. Così da tre anni a questa parte mi concedo una pescata nel Piave all’altezza di Longarone che da Erto dista una decina di chilometri.

Quest’anno mi son portato appresso mio cugino Fabio, valente pescatore, gran camminatore ed eccezionale russatore. Cinque minuti di riposo durante un’escursione a 2500 metri, sul greto del fiume dopo aver mangiato un panino, o anche due minuti di empasse dopo un chilo di pastasciutta a cena sono occasioni imperdibili di dormite e grandi russate.

Cominciamo tardi a pescare, verso le dieci e trenta, perché prima dobbiamo fare il permesso (12 euro) alla Proloco di Longarone e soprattutto comprare il pane ed il formaggio per il pranzo. Il sole è già alto e la giornata è decisamente calda ma noi, venendo da Firenze, siamo abituati a ben altre calure. Speriamo solo che le trote siano dello stesso avviso... Partiamo da bocca di Vajont pescando tutti e due a spinning con canne monopezzo di due metri e nylon dello 0,22. Fabio inizia con un Rapala affondante di 7 cm, io provo con un cucchiaio del numero 3, un Mepps Aglia per la precisione.

La prima mezzora è di magra e non vediamo nemmeno un pesce. Ad un certo punto Fabio, nella corrente di entrata di una bella pozza, allama e porta a riva una trota: Si tratta di una piccola marmorata sui 30 cm, che comunque lascia ben sperare. Risalendo oltre il ponte della statale che porta a Erto e Claut continuiamo a pescare. Io provo una miriade di cucchiai diversi ma non smuovo un pesce. Fabio in compenso, passato un quarto d’ora di ferma, porta a riva un paio di ibridi di buona taglia e poi un’altra marmorata sui 35 cm. Numerosi sono anche i pesci che inseguono il minnow limitandosi, al più, a qualche impercettibile assaggio. A qualche metro da riva, regolarmente, interrompono l’inseguimento.

Noi siamo abituati ad altri ambienti. Dalle nostre parti, in particolar modo in Casentino, che io sono solito frequentare, i torrenti sono particolarmente infrascati, spesso addirittura coperti dalla vegetazione. Il fondale, anche se l’acqua è limpida, risulta più scuro. Si pratica una pesca essenzialmente di ricerca, fatta di lanci calibrati e delicati per non insospettire il pesce. Spesso si va proprio a cercare la tana della fario che, se si rimane ben nascosti fra la vegetazione o comunque bassi sull’acqua, attacca anche a pochi centimetri dai nostri piedi. Qui il discorso cambia radicalmente: peschiamo fra immense distese di ghiaia e ciottoli bianchissimi. Gli alberi lungo il fiume non ci sono, al più è presente qualche, fra l’altro promettentissima, vetrice. Se la giornata è soleggiata, come nel nostro caso, la luce è quasi accecante. 

Siamo costretti quindi a lanci particolarmente lunghi a tagliare le correnti con il pesce che in linea di massima attacca, o inizia l’inseguimento, da molto lontano. Il minnow sembra avere una resa maggiore, almeno nell’occasione, ed anch’io mi adeguo lasciando perdere i cucchiai. Le trote adesso mangiano e Fabio, che ha capito come si muovono, cattura con regolarità. In un’ora guadina senza guadino, cioè con le mani, 7 trote sui trentacinque centimetri e una serie di consorelle minori. Si tratta in prevalenza di ibridi e di un paio di marmorate pure. Poi arriva il primo colpo di scena, fuori dall'asta principale del Piave, nella minuscola cascatella di un piccolo affluente laterale. Sono tornato al cucchiaio, perché qui un pesciolino non sarebbe neanche riuscito a nuotare. Il recupero è difficoltoso, a causa della presenza di alcuni salici e soprattutto grossi massi, fuoriusciti da un gabbione sfondato.

Al primo lancio (se di lancio si può parlare, in quella pozzerella) mi pare di avvertire qualcosa che urta il cucchiaio, proprio nella schiuma che limita la visibilità. Ritento: stavolta l'abboccata è decisa. Sono costretto con un paio di salti rocamboleschi a posizionarmi proprio sopra la buchetta per evitare che il filo si tagli sfregando sui sassi. La trota infatti cerca caparbiamente di intrufolarsi negli anfratti del fondale. Così da ridosso controllo abbastanza bene le sfuriate del pesce e dopo poco riesco a portarlo a riva. È una marmorata di 49 cm: la cosa inizia a farsi seria! Più avanti ritrovo Fabio che pesca trasversalmente ad una bella corrente. Lascia passare l’esca rasente un groviglio di legni e radici sommerse… Troppo vicino: l’amo rimane impigliato. Mi offro io di sbloccarla e con l’acqua quasi all’inguine raggiungo il piccolo ammasso di legni. Affondo un braccio nella corrente e in quel mentre mi parte dai piedi una sagoma scura che pare quella del “Nautilus”! Se l’esca non si fosse impigliata… Qualche improperio e poi lo lasciamo attaccato a quel garbuglio di frasche e radici. Ora però siamo in trance predatoria. Fa sempre più caldo, ma noi non ce ne curiamo e, a quanto pare, nemmeno le trote: un bestione attacca il Rapala di Fabio, ma nonostante la ferrata pronta ritorna nella sua tana proprio sotto la riva opposta. Qui la corrente è davvero forte, noi peschiamo con pesciolini affondanti da 9 cm ma non guasterebbero nemmeno da 11 cm, per reggere all’impeto delle acque.

Sono attratto da un piccolo vortice sotto una vetrice a lato della corrente principale. Azzecco il lancio alla prima. Il Rapala, spinto dalla corrente, entra sotto la pianta, io lo metto in tensione e, questione di attimi, esce nuovamente allo scoperto. Eccola: si avventa sul minnow ed io rispondo con una poderosa ferrata. Lei si getta nella corrente ed io cedo filo, ma sono costretto a seguirla lungo la riva, dove per poco non inciampo rovinando tutto. Passo la canna a Fabio il quale, onorato, la porta in acqua bassa dove, affiorando, scuote la testa a fauci spalancate come un luccio. È questione di poco e riesco ad agguantarla. È una marmorata pura di 60 cm. La ammiriamo e rimiriamo elettrizzati. In particolar modo ci colpisce la grossa testa e il taglio della bocca, ben più ampio delle fario che siamo abituati a maneggiare. Siamo davvero contenti: per noi umili pescatori d’appennino è un bel colpo. Riprendiamo a pescare e Fabio cattura una bella fario ed una discreta marmorata. Il sole è allo zenit, ma le trote, che almeno dalle nostre parti fuggono la luce eccessiva, rimangono attive. Hanno fame, ma anche noi siamo da troppe ore a stomaco vuoto. Ci fermiamo per un panino.

Quando ripartiamo siamo all’altezza del ponte di Castellavazzo; oltre il manufatto, lo scenario che si apre davanti a noi è incantevole. La valle si stringe e l’acqua spesso lambisce le strapiombanti pareti del monte Borgà, formando pozze ed anfratti spettacolosi. L’acqua è cristallina, verde smeraldo dove la profondità supera i due metri. È un vero spettacolo, ma non siamo i soli a pensarla così ed infatti troviamo diversi ragazzi a fare il bagno. Saltiamo così tre o quattrocento metri di fiume e poi riattacchiamo a pescare. Per una mezz'ora buona non prendiamo niente.

Poi, fortunatamente, i pesci tornano a farsi vedere e Fabio, a lato di una violenta corrente, aggancia una bella trota che lo costringe a ceder filo più volte durante il recupero che va a buon fine. È un ibrido fario-marmorata dai riflessi gialli e le pinne sviluppatissime. Rasenta i 50 cm.

Siamo giunti all’altezza del ponte tubo e qui inizia il tratto catch and release ben segnalato da numerosi cartelli. Proseguiamo pescando adesso con l’amo singolo e senza ardiglione. Fabio cattura un numero impressionante di trote, alcune nei rami secondari del fiume. Poi incaglia l’esca sul fondo e mi chiama per far tentare a me il lancio prima di entrare in acqua a recuperare l’artificiale. “La prendi di sicuro” mi dice, ed infatti salta fuori una fario di poco sotto il chilo che attacca l’esca al volo! Più avanti troviamo numerose impronte di cervo, calato evidentemente durante la notte ad abbeverarsi o comunque a farsi gli affari suoi. E poi, più lontana dall’acqua, alla base di un cespuglio, ecco una bella vipera che si ritira indispettita sotto il fasciame. La lasciamo volentieri ai suoi impegni. Ci troviamo così ad affrontare una bella spianata con acqua relativamente profonda, sorprattutto a ridosso della sponda opposta.

Perdiamo il conto, cosa mai successa, delle trote che portiamo a riva. Molte sono però fario di media taglia. Siamo arrivati a Termine di Cadore. In riva sinistra un piccolo riale si getta nel Piave con una cascata alta un centinaio di metri. Alla base, riparato dal sole ed esposto a nord, c’è un cumulo di neve alto 5 o 6 metri. Siamo in pieno agosto, a soli 450 metri sul livello del mare, e c’è la neve… È ciò che rimane di una valanga che durante l’inverno si è staccata dalla montagna giungendo a valle tramite il canalone del torrente e colmando quasi per intero il salto della cascata (vedere Youtube per credere). Le trote continuano ad attaccare i nostri artificiali, ma ora molte sono a malapena 20 cm. D’improvviso sento uno sciabordio ed alzando gli occhi vedo Fabio a braccia aperte. Poi si mette le mani nei capelli. Una bestia, di certo superiore ai due chili, aveva attaccato la sua esca in 5 cm d’acqua, praticamente a riva. L’attacco è andato a vuoto, nonostante il pesce si fosse quasi spiaggiato! Con un pizzico di rammarico riponiamo l’attrezzatura. Siamo infatti a Termine di Cadore, ma anche al termine della nostra pescata, perché il sole è già tramontato e dobbiamo “sciropparci” diversi chilometri per tornare alla macchina. Sulla via del ritorno, camminando torniamo a rammentare e commentiamo euforici i momenti più esaltanti della battuta. Una giornata da ricordare, in un ambiente eccezionale da un punto di vista paesaggistico e naturalistico, dove le trote sono decisamente numerose e la possibilità di incontrare qualche marmorata sopra i due chili è tutt'altro che rara. La grande presenza di ibridi denota, fra l’altro, la notevole facilità con cui si riproducono le trote in queste acque, fattore molto positivo di questi tempi. Di contro evidenzia, mi si conceda una nota critica, come forse troppo spesso si sia ripopolato questo fiume o le parti terminali dei suoi affluenti con trote fario quando questo sarebbe l’ambiente elettivo della marmorata, che certamente andrebbe meglio preservata e valorizzata.

 

 


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