Racconti

Quando il fiume parla con noi

Di Massimo Zelli pubblicato il 27/10/09

La brezza fresca ma ancora gradevole  che accende un mattino qualunque di metà ottobre nel 2007 è uno dei tanti regali a cui un pianeta in continuo cambiamento va abituandoci. Sono le 6 e quaranta  ed è ancora buio,  mentre cammino sulla sponda erbosa cercando di cogliere qualche increspatura sulla corrente imponente e lineare della sponda, mi perdo nella poesia del fiume che si sveglia. Uno schiocco a pelo d’acqua lascia intravedere una grossa pinna, una carpa che ha voluto omaggiarmi del suo saluto.

E’ un giorno di ferie, oggi, non c’è nessuno con me tranne il fiume, che con il suo placido scorrere imperturbabile simula una clessidra e sembra voglia dirmi qualcosa... con quel suo essere “clessidra”. E’ un giorno oggi,  che ha un sapore diverso, devo rispondere a delle domande che mi faccio, devo cercare dentro di me la causa del mio forte bisogno di stare sul fiume. Fuori albeggia e l’aria è calma ma dentro di me la tempesta è furiosa... un pensiero silente che mi rode dentro e che ho deciso di far venire allo scoperto.

E’ da molto tempo che in me qualcosa causa una certa malinconia, più che malinconia è un insoffernza crescente, che non raggiunge mai intensità eccessive, ma c’è, la percepisco. Cessa ogni qualvolta la mia testa sente odore di pesca, basta che guardi un fiume o prepari l’attrezzatura.

La fine spallinata 3x3 è pronta , la controllo, la giro e la rigiro per vedere se le distanze sono corrette, 3 pallini del 9 sono seguiti da 3 dell’8 .... che sono seguiti da 3 numero 7 ...e così via a taratura di una lenza da una paio di grammi. Lancio 9-10 metri a monte senza nemmeno montare il finale per trovare il fondo. Il galleggiante è tarato a metà antenna, il procedere al contrario e l’antenna fuori tutta, dice che tocco con un pallino del 9. Se parto in questo modo con un finale del 10 da 40 cm ed il classico Gama 120H del 24 sono perfettamente in diagonale....

 

Perchè quella sorta di nodo in gola cessi, non serve necessariamente che sia a pesca mi basta entrare in garage e dare una lisciata alle mie canne. Alle volte mi sorprendo sereno e disteso persino guardando i miei pesci cibarsi nell’acquario. C’è decisamente qualcosa che non va nella mia testa. E’ ora di capire cos’è.

Un affondata mi coglie impreparato, ferro con ritardo ma l’amo sembra non essersene accorto e buca comunque la bocca al primo cavedano del giorno. La mente è altrove e si sta domandando la causa della mia serenità. Non è contentezza furibonda, è semplice serenità, pace interiore, qualcosa che difficilmente proviamo al giorno d’oggi nella normale routine quatidiana. Il cavedano compie il solito rituale fatto di testate sfuriate e giravolte, evito un paio di  fughe nell’erbaio che ho sotto i piedi e lo guadino senza nemmeno tirargli la testa fuori dall’acqua  è quasi sorpreso, s’è trovato “al secco” senza nemmeno poter finire “la scena drammatica” del recupero con i soliti gorghi a pelo d’acqua.

E’ agganciato fuori dalla bocca sotto, al mento , sto pescando troppo sul fondo, il pesce è rimasto agganciato solo gruflando sull’amo non ha di certo colto l’esca al volo. Devo correggere qualcosa e poi ci siamo, sembra una giornata iniziata bene comunque.

Il tarlo dentro continua a lavorare, scava gallerie e indebolisce muri di certezze maturate negli anni. Le domande cominciano a piovere prima rade e pesanti come le prime gocce di un acquazzone estivo poi diventano sempre più fitte e confuse, ma hanno un filo logico e quel che più conta non vogliono risposta, vogliono solo che io ragioni.

L’antennina gialla sussulta un istante , io la sto guardando con attenzione ma questa volta il braccio  parte da solo prima della mente e gela quel movimento impercecettibile. C’è di nuovo!

 La difesa è pesante e lenta, non ha fantasia ma è vigorosa, intuisco subito che si tratta di tutt’altra clientela al banchetto che ho imbandito per miei avventori. Dopo qualche timida ripartenza una breme sul kilo e mezzo va a fare compagnia al cavedano accusato ingiustamente di aver mangiato la mia esca e per questo messo  in nassa.

CRACK! Dentro di me s’è spezzato qualcosa e non  è stato quel maledetto tarlo, non è più un tarlo adesso. E’ mutato in un ascia, un accetta mossa alla ceca in un ginepraio, ovunque cada colpisce bene.

Poggio la canna e siedo sul panchetto. Accendo una sigaretta di riflessione e ne contemplo il gusto umido e acquoso che assume quando sei vicino al fiume e si sta sollevando la sottile nebbia del mattino con il primo sole.

 Quello che mi ha fatto fermare è stata un’affermazione talmente infausta che è rimbalzata nella mia testa quindici secondi, prima che ad alta voce e senza nessuno che potesse ascoltarmi ho detto: << CHE IDIOZIA!!>>.

“C’è tempo per godersi la vita, il lavoro viene prima”.

Non ricordo in che circostanza ho ascoltato tale frase e nemmeno chi fosse l’autore, o forse l’ho rimosso come avevo rimosso la frase prima di questo momento. Ad ogni modo, eccola li! E’ Cristallina e chiara la causa di quel malessere passeggero che arriva cresce e poi cessa.

Ancora un cavedano. Questo ha dato una mangiata da manuale, non ha affondato il galleggiante, lo ha semplicemente fermato, come le savette dei bei tempi sul Ticino pavese.

 Ferrò senza indugi, questo è più grosso dell’altro, impiego più tempo a ricondurlo alla ragione ma alla fine toccherà anche a lui farsi “qualche ora di galera”. Se stessi facendo una gara probabilmente il primo si sarebbe slamato ed il terzo avrebbe rotto il finale dell’8... delle volte bisogna essere realisti, il pessimismo ci prepara al peggio e ci fa gioire quando e se arriva il meglio...

Un’altra frase sentita da qualche parte e di cui non ricordo l’autore... un altra emerita idiozia.

Scrollo la testa come per scacciarla.

 Ora, non vorrei fare il pignolo ma, per quanto mi piaccia e mi appassioni il mio lavoro, e mi piace e mi appassiona, vorrei sapere in nome di quale principio dovrebbe essere più importante di me medesimo. Il mio stato attuale è quello di, inconsapevolmente, sacrificare  vita e affetti  vivendoli di fretta e con il fiatone nei ritagli di tempo che il mio lavoro mi lascia. Ho  grande passione, grande amore per il mio mestiere, ma alla fin fine tutto ciò cosa porterà?

Sono forse come quel qualcuno che non è contento se non si trova in mezzo ad una situazione stressante, frenetica e problematica? Puodarsi pure che sia così, il lavoro che faccio è stressante frenetico e problematico, ma questa ricerca di emozioni nel lavoro, non è il caso che cessi fuori dalle porte dell’ufficio? Non è forse il caso che non assorba il 99% di me e che mi faccia vedere come gravissima colpa “abbandonare la nave” prendendo un giorno di ferie?

La clessidra che davanti a me scorre piatta, vuotandosi, nel suo eccezionale color smeraldo mi da una risposta chiara e limpida a queste domande. Non ho bisogno di trascriverla. All’improvviso un senso di forza sicurezza e serenità mi invade, io adesso so, so cosa debbo fare.

Altra affondata.

Altra fiocinata andata a segno.

La difesa non mi coglie più impreparato, difficilmente sbaglio su questi pesci che oramai chiamo per nome  da tanto sono anziane le nostre amicali frequentazioni. La cosa che a me resta più difficile spiegare tuttavia è perchè... Perchè mi emoziono ogni volta che sento quel vibrare sulla canna?  E’ proprio vero che le emozioni non si spiegano, ed è per questo che oggi sono tra le poche cose ad avere veramente un valore.

Percorro a ritroso la vita di mio padre che a 55 anni ha l’energia di un ventenne sul lavoro e mi domando una persona speciale come lui, quanto più speciale potrebbe essere se si occupasse un po’ di più, di ciò che lo rende sereno. Sembra un atto di egoismo parlarne, sembra quasi di essere irriconoscenti al destino, ma in fin dei conti il lavoro non nobilita proprio un fico secco. E’ il mero mezzo che ci porta quanto serve a vivere, che sia questo poco o moltissimo, non cambia. Il lavoro è un’attività che molto probabilmente è deputata ad occupare buona parte del nostro tempo ma deve anche essere relegato alla giusta dimensione nella scala di valori che compongo la nostra vita.

Il pesce è in pastura da un pezzo  e con le mani raschio la bacinella per tirare giù gli ultimi residui di incollato. La canna è  a destra, poggiata su un fianco. La pastura, sto per lanciarla con la mano sinistra. Mentre sto per lanciare,  una fucilata arriva secca sul galleggiante.

 La ferrata arriva prima anche sta volta. La palla di incollato cade dopo  2 secondi 5 metri  prima del galleggiante affondato.

Ho ancora una trentina di passate buone ed è meglio sfruttarle con la testa libera da pensieri. Di solito quando pesco bene, o meglio, quando ho l’impressione di pescare bene il metro di giudizio più immediato che ho è contare le sigarette che mancano dal pacchetto sbollato al mattino, ne erano rimaste 18...Buon segno.

Anche questo è in nassa, un bella breme sui 7-8 etti. 

 

Sono le 11:00 è l’ora di chiudere le canne: la nassa brulica di pesci ed oggi ho pensato anche troppo. 

Alle volte credo sia proprio necessario avere delle giornate sul fiume in cui facciamo pace con noi stessi, l’introspezione di una giornata di pesca in solitaria alle volte può portare alla luce parti di noi che non conosciamo e che faremmo bene ad imparare invece. E’ come fare un tagliando al nostro pensiero, controllare se tutto è in ordine. Ci sono necessità che non sentiamo solo perchè ci imponiamo di non sentire, inconsciamente.

Ci sono  giornate come queste in cui volendo ascoltare è il fiume che parla con noi, facendo da specchio al nostro pensiero e mostrandoci quello che è realmente.


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