Racconti

Mi ricordo...

Di Simone Soncin pubblicato il 23/01/10

Più di dieci anni or sono. Allora, pescavo molto più spesso di oggi; nel ’98 i miei genitori si trasferirono in quel di Loreo (RO), nel Delta del Po, dopo anni di sacrificio nel restaurare la  casa natale di mio padre. Piccola ma bellissima, è a poche centinaia di metri dal Po di Levante ed io, all’epoca single e spensierato, ogni fine settimana partivo da Padova, dove vivo tutt’ora, per andare da loro, ma soprattutto per pescare.

Ogni week-end una tecnica diversa: una volta carpfishing, un’altra boccaloni con i vermoni, un’altra ancora lucioperca con il morto e montature Drachkovitch, ma quello che più amavo era alzarmi alle 4,00 di mattino dei sabato di giugno e luglio per andare a pescare cefali poco prima di Porto Levante, nel tratto finale del Po di Levante, appunto.

La tecnica era duplice e semplice: a fondo con montatura come per il bolentino, oppure con il galleggiante da 20-25 gr., scorrevole, piombo adeguato, scorrevole anch’esso, e terminale Ø 18-20 cortissimo, tremolina come esca.

Quel fine settimana avevano previsto una perturbazione sul Nord-Est con temporali e tempo instabile.

Come al solito, arrivai dai miei il venerdì sera con l’adrenalina già in circolo; mio padre mi chiese cosa avessi fatto all’indomani ed io risposi: “…cosa vuoi che faccia… vado alla “bisgaia”!!”.

La “bisgaia” era il punto in cui, dalla strada che porta a Porto Levante, in corrispondenza di un vecchio magazzino di metallo arrugginito, era possibile accedere all’argine del fiume.

Qui pescare era un vero inferno; l’estrema vicinanza al mare creava delle correnti velocissime che solo in corrispondenza  dei massimi di marea (quindi solo per 30’ circa) rallentavano, fino a fermarsi completamente, con notevoli mangianze proprio durante quei pochi minuti, per poi riprendere altrettanto impetuosamente in senso contrario. Bisognava arrivare prestissimo, prima degli altri, sennò addio postazione. Ogni sabato e domenica sembrava una gara: per chilometri, fino alla darsena del “Nuova Marina di Porto Levante”, ogni minimo spazio era occupato da un pescatore; chi a “a fondo”, chi “a lancio”, ogni pertugio veniva conquistato con il sacrificio di ore rubate al sonno e quel giorno io arrivai tra i primi; era ancora buio.

Saranno state circa le 4,30 quando con la torcia cominciai a scendere nella mia postazione, con una certa apprensione. I suoni della notte erano ancora nell’aria quando una grossa nutria spostò con la sua mole, alcune piante di mais alle mie spalle e lì persi almeno cinque anni della mia vita per lo spavento. Pochi minuti ed il rosso dell’alba cominciò ad illuminare la sterminata bellezza del Delta; i suoni cambiarono ed i ronzii degli insetti, lasciarono il posto allo stridere degli uccelli ed al chiocciare di un fagiano alle mie spalle.

Preparai come al solito le mie due canne: una “a fondo” (la canna che dorme) e l’altra rigorosamente a galleggiante (la canna da compagnia). Le ore passarono e l’argine lentamente si popolò delle allegre e festanti compagnie di pescatori , provenienti dai diversi angoli del Veneto ed Emilia Romagna; come in ogni gara che si rispetti, non mancavano mai le grida di sfida e scherno da una parte all’altra dei due argini.

Le passate erano velocissime, frenetiche, a causa della forte corrente ed alle 08,00 circa, una brezza fastidiosa portò nubi che velarono il sole; nulla di fatto per tutti.

Dopo altre due ore circa, l’orizzonte si annerì minacciosamente ed il vento rinforzò ulteriormente, impedendomi così di lanciare; il fiume si increspò di onde così alte da non riuscire a vedere il galleggiante, peraltro inclinato dalla furiosa corrente che spingeva verso il mare.

In pochi minuti il fuggi-fuggi generale: quasi tutti richiusero le loro attrezzature in fretta e furia, sbattendo nervosamente le porte delle auto, mentre le gomme dei più solerti, sollevavano nuvole di polvere, spazzate da un vento sempre più forte.

Il cielo si fece uniformemente “grigio-fumo-di-londra” ed io ricordai i racconti dei vecchi: “…quando c’è il temporale, le anguille si raggruppano tutte, si agitano dal torpore ed è allora che si prendono le più grosse…”così decisi di rimanere. A qualunque costo.

Misi in auto tutto il superfluo, lasciando fuori solo la canna da fondo (in pesca), il guadino e lo sgabellino di tela.

In pochi istanti, cominciò a diluviare ed io, raggomitolato nella cerata mimetica, mi resi conto della stupidaggine che stavo facendo, quando un fulmine andò a scaricarsi nella campagna retrostante con un boato: persi altri cinque anni di vita.

Ad un tratto, la canna ricevette un colpo che la fece uscire dall’appoggio; anche se la frizione era parzialmente aperta, il cimino era già immerso in acqua quando, con uno scatto, riuscii ad afferrare l’impugnatura della canna.

Ferrai e sentii la frizione fischiare come un treno. L’acqua ed il vento mi prendevano a schiaffi, mentre un senso di paura mi corse lungo la schiena: ero solo, in mezzo ad un temporale, in mezzo al nulla e con qualcosa di incazzatissimo attaccato alla lenza. Calmo; se fossi rimasto calmo, presto o tardi, si sarebbe stancato e quanto meno avrei visto di cosa si trattasse.

Passarono i minuti ed ogni volta che mi sembrava di scorgere la preda, questa ripartiva come un proiettile rubandomi metri di lenza, fino a quando le testate si fecero più deboli e allora finalmente la vidi.

Le dimensioni della testa e la forma della bocca, per un attimo mi fecero pensare ad un amur ma in realtà era una splendida “bosega”.

Un favoloso cefalo che sfiorava i tre chili, con tanto di macchie gialle sulle branchie ed una livrea da mozzare il fiato. Lo guadinai,  tremando per il freddo e l’adrenalina, poi lo deposi delicatamente nella nassa e rimasi seduto sul mio sgabellino, stordito, bagnato, felice.

La pioggia lentamente si calmò fino a nebulizzarsi nell’aria umida e nei profumi della campagna d’estate.

Dopo mezz’ora, il sole di mezzogiorno fece capolino tra le nubi bianche e spumose, con raggi caldi ed accecanti e guardai all’orizzonte, verso il mare, una larga striscia di cielo scuro che a tratti mandava delle occhiatacce a destra e a manca, brontolando, diretto chissà dove.

Ero immobile, solo, sopra un argine con la consapevolezza di aver vissuto l’emozione e la soddisfazione della mia vita.

Accesi il Maggiolino 1200 e tornando a casa, mi fermai al bar dove era solito andare mio padre, per chiacchierare e bere “ombre” con gli amici.

Scesi dall’auto con la cerata ancora addosso e la nassa in mano; sentii qualcuno dire: “Mario! Varda ‘to fiòlo!...”. Mio padre si girò verso di me con il suo sorriso, ma dopo un attimo divenne serio e stupito; guardò il cefalo e disse: “…ma sito matto?!” e tornò a sorridermi. Gli amici del bar si misero a ridere.

Sono passati molti anni; mio papà oggi vive nel mio cuore ed io oggi ho una moglie e due bimbe.

Ho molto meno tempo per pescare di allora, ma la gioia che provai quel giorno è uno dei significati di tutta la mia vita.

 

 

 


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