Racconti

Soltanto una storia

Di Massimo Zelli pubblicato il 26/03/16

1

Ricordo con precisione un paio di cose della mia primissima infanzia. Dopo circa 30 anni, ho ancora in mente la disposizione del mobilio nel bar di mio nonno.

 Mio nonno, si. Mi sembra di vederlo. Era un uomo magro sul metro e settanta scarso e le tempie già grigie. Portava un camice chiaro e passava le sue giornate tra Vermuth, caffè, gelati e mazzi di carte. Non era vecchio, era sulla sessantina, qualche acciacco di troppo ce l’aveva ma era sempre disposto a dedicarmi tutto il tempo e l’attenzione che poteva. Ci sono quasi cresciuto dentro quel bar, almeno fino all’86.

L’altro ricordo che ho di quegli anni è la mia prima pescata con una canna. Si ravviva nella sua nitidezza ogni volta che ci penso, la memoria che viene risvegliata ci aggiunge qualche dettaglio, come oggetti che il mare restituisce dopo una tempesta. Uno alla volta li dà indietro tutti.

Posso ancora sentire l’odore del mare, pescavo con mio papà sopra una punta di scogli alla foce del Tronto. Premetto che mio padre è sempre stato una persona di un'umanità eccezionale, e non ha perso occasione per dimostrarlo, allora, assecondandomi nella mia passione, pur non condividendola. Aveva il “difetto” di essere totalmente digiuno di pesca.

Per questa ragione, il ricordo di lui che ci metteva l’anima per insegnarmi a pescare oggi mi fa un po’ sorridere e un po’ mi commuove. Mi portava in giro in macchina dappertutto per interi pomeriggi, per consentirmi di provare a pescare. Chiedeva consigli a pescatori “veri” per conto mio, entrava nei negozi con me e non ne usciva fintanto che non si era fatta un’idea chiara su come usare un arnese, in poche parole su come pescare. Voleva, come ha fatto altre volte, tenermi per mano nel cammino, a parer suo difficoltoso, che volevo intraprendere: la via della pesca. Credo d’essere stato tra i pochi pescatori ad imparare a pescare da uno che non sa pescare.

Avevo 6 anni e i miei sogni si popolavano di bavose color ruggine, gonfie come dei cardinali e altrettanto viscide. Erano i miei pesci quando avevo sei anni o forse è meglio dire che io ero il loro pescatore visto che erano gli unici che sapevo prendere.

Anche allora la mia indole e la mia testardaggine tracciavano strade per conto loro: mio padre avrebbe voluto che catturassi qualche cefalo, io non ne volevo sapere. Col senno del poi un po’ lo capisco, non era da biasimare. Comincio a capire qualcosa del cefalo solo ora che i capelli imbiancano, a lui, che nell’85 aveva 30 anni, chi mai avrebbe potuto spiegare che pescare non è una faccenda stocastica e che non basta mettere in acqua un amo con un’esca.  Dal canto mio i conti in tasca me li sapevo fare bene anche da piccolo: mi rendevo conto che da solo che non ci sarei riuscito a pescare cefali.

Avevo l’impressione di perdere tempo provando, non ne avevo mai preso uno e pensavo semplicemente d’aver una canna troppo corta per farlo. Mi ero confessato e assolto, così da poter tentare altre cose senza rimorsi.

E così quando la voglia di sentire tirare sulla canna era tanta, sfuggivo all’occhio vigile dei papà , toglievo tutta l’acqua al galleggiante e calavo la lenza in mezzo agli scogli. Potevo vederlo quel pesce, era talmente brutto nella sua livrea indefinita, così pieno di aculei da sembrare un mostro. Azzannava con ferocia la mollica e la tratteneva in bocca, quasi come la stessa covando. Quando poi si muoveva il tappo a pallina rosso e bianco spariva. Io tiravo e ... la canna si animava!

Quella resistenza, quelle testate, quel correre freneticamente erano una scarica d’adrenalina che nessun calcio al pallone, nessuna partita di tennis, che mio padre avrebbe voluto giocassi, avrebbero potuto darmi.

Dopo la cattura, con la pazienza di un santo, cercava di spiegarmi che lì i cefali non c'erano. Forse dopo qualche uscita aveva capito che, per me, cefalo, bavosa o tracina non facevano differenza. Non sono mai stato un bambino ubidiente e fiducioso. Sono sempre stato un cliente ostico per le regole e i buoni consigli. A me bastava vedere il tappo sparire ed ero già felice. Tutto il resto era molto poco importante in quel momento.

2

Il tremolio sull’antenna del “Milo Debora”, che adopero questa mattina, mi risucchia fuori dalla spirale dei ricordi. La ferrata arriva implacabile, come una sorta di riflesso che negli anni è divenuto più acuto e più attento, basato più su di un contatto mentale con l’astina rossa che mi passa dinanzi che su di un mero fenomeno fisico.

Talvolta nei confronti dei pesci mi sento come quei giocatori che non hanno né piedi buoni, né gambe, né polmoni per giocare, solo quel tempismo bastardo che gli permette di stare in mezzo al campo al pari degli altri. In effetti a calcio sono sempre stato una mezza sega ma giocavo decentemente. Sapevo calciare forte e preciso e non mi mancava l’anticipo. Giocavo in difesa ma calpestare l’erba la domenica m’ha sempre dato quel lieve senso di incompiutezza. Quasi come se stessi sprecando il mio tempo: toglievo minuti ai miei fiumi. Mi divertivo a metà.

Il pesce che ho in canna non ha sangue blu ma quel peso sulla vetta, quel tirare deciso, quelle testate che vanno assecondate di polso, facendo lavorare il finale al limite, mi riportano di nuovo ai primi pesci presi. L’emozione è della stessa intensità di allora, forse solo più consapevole.

Al guadino arriva il primo ospite del giorno, una breme di taglia decente.

Cristian, accanto a me, è quasi sorpreso nel leggere tanta soddisfazione nei miei occhi: me ne accorgo e lo sprono ad impegnarsi, visto che abbiamo sotto pesci attivi ed in pastura.

La cima della bolognese fende l’aria con autorità per poi fermarsi all’improvviso, come a scandire il tempo della seconda battuta di questa musica.

Cristian non resta a guardare. Ha impiegato un po’ a prendere le misure alle tocche di questi “ciprinidi minori”, ma adesso macina una passata dietro l’altra, un pesce dietro l’altro.

Cosa possa avermi dato la pesca in tutto questo tempo è difficile da quantificare, ma è sicuramente molto, e molto importante: Cristian è uno dei regali della pesca, un amico.

I minuti scorrono più veloce dell’acqua che abbiamo davanti. Il tempo che spendiamo in questa magnifica solitudine è spesso una valvola di sfogo alle ansie quotidiane. Più spesso, almeno per me, è un necessario momento di introspezione. Ho imparato col tempo che si può essere nella propria solitudine anche in due e che talvolta, fare una giornata “a spalla” con un ragazzo schietto ai limiti del fastidio, ma per lo meno vero, è il complemento a uno della faccenda.

Il verde trasparente dell’acqua arriva quasi al bordo degli stivali. E’ di un intensità che non ha aggettivi. Ci siamo noi, una lieve brezza, qualche albero di fronte che fa da contrasto al rosso del galleggiante e un silenzio rotto solo dai primi rumori della primavera. Varrebbe il prezzo del biglietto anche senza pendere pesce.

La montatura fine è trasportata dalla corrente senza che io ne modifichi in maniera alcuna la traiettoria; mi concentro sulla trattenuta per eseguirla nel migliore dei modi, affinché si realizzi quello che nella mia mente si ripete ad ogni passata: “un contatto che esiste ma non si vede”.

La punta deve essere strettamente connessa alla lenza in acqua, ma con una tensione talmente lieve da sembrare che non ci sia.

Raddrizzo il galleggiante quando con il primo pallino tocco su di un rialzo del fondale e dall’invito scaturisce un tremore dell’astina.

Eh già, la lezione del fiume oggi ha come tema la lettura del galleggiante. Sollevo di nuovo la canna. E’ piegata. C’è una grossa breme dall’altro capo del filo che la scuote: il da farsi è un copione consumato.

Il pesce tiene il fondo in modo ostinato. E’ questione di un minuto: una bolognese non è mai troppo morbida e se una canna adatta la tieni costantemente alta e con un angolo minore di 90° rispetto al filo in uscita, non lascia troppo spazio alle repliche.


Sentendosi vinta, la grossa breme tenta l’ultima fuga a galla, poi si abbandona di peso sul pelo dell’acqua cercando di sfruttare la propria mole per opporre un'ulteriore resistenza grazie alla forza della corrente.

Se in questo momento non faccio attenzione il pesce è perso. Metto la cima della canna in acqua per 30-40 cm ed esso scende di nuovo sotto, lasciandosi recuperare. Quando è oramai a 6-7 metri da me alzo la punta della canna per riportarlo in superficie. Il guadino è già pronto sottacqua. Lascio che la breme si porti sopra di esso. A questo non mi resta che allentare la tensione lasciando che il pesce punti in basso: in questo modo si adagia da solo nella rete.

3

Pescare è forse ripetitivo, si tratta pur sempre di prendere dei pesci, ma non credo che ci sia un'altra attività capace di darmi le stesse emozioni, anche se le ho vissute mille volte, anche se ormai riesco a immaginare come va a finire, o meglio, cerco di immaginare come dovrebbe andare a finire. Più o meno è questo il mio pensiero mentre sono seduto al tavolino del bar: un bar simile per altro a quello da dove questo racconto è iniziato.

Una birra fredda fa da cornice ai racconti di esperienze, di lenze, di tecniche e delle giornate trascorse al fiume. Abbiamo ancora nelle orecchie lo sciabordio delle nasse a fine giornata e negli occhi le canne piegate un colpo dopo l’altro, una passata dietro l’altra. E’ la pesca stessa che porta a parlare di pesca. Le sensazioni sono semplici ed al contempo difficili da descrivere. Potremmo perdere ore a parlare di un solo pesce in canna, di una lenza, di un lancio ben fatto, di come stendere in acqua la montatura come una foglia morta piuttosto che come un sasso.

Al tavolino di quel bar, a fine giornata, a parlare di questa passione spero di averci portato anche voi che mi avete letto.


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