Di (di S. Zucchetti) pubblicato il 04/10/24
A Gianfranco Guerini.
Mi chiamo Gianfranco e sono un pescatore, un pescatore del Sebino.
Ho proprio fatto una vita a pesca io. Ho cominciato con mio padre, da piccolino, e ho sempre avuto
quella passione lì... la pesca alla traina, col borò come lo chiamiamo tradizionalmente, poi anche
con la tirlindana e con la cavedanera. Non appena potevo, ero fuori in barca. Mio padre mi ha
lasciato andare in barca da solo che avevo appena dieci anni… sapevo già nuotare molto bene, eh,
perché non è che mio padre fosse un incosciente.
Mi ha attaccato la sua passione e mi ha cambiato la vita.
Sì, mi sono divertito davvero molto per via della pesca. E quanti ne ho presi di pesci… Sicuramente
tanti e belli, parecchio belli, ecco.
Però una volta il lago era molto più pescoso. E uscivamo tanto a pescare…
Pensa che quando c’era la luna piena andavamo persino la notte, nel mese di gennaio!
Allora la pesca notturna alla trota era consentita. E quante ne prendevamo di trote al chiaro di luna,
altro che di giorno… Uscivamo in barca verso le nove di sera fino a mezzanotte e mezzo, l’una.
Andavo fuori con mio padre, a remi, non a motore perché di motori non ce n’erano! E remava
sempre lui, mio padre, anche se era senza una mano. Sì, gli mancava la mano sinistra. Era stata una
bomba trovata nel lago. Lui l’aveva raccolta e quella era esplosa facendogli partire via la mano
proprio di netto. Lo scoppio gli aveva spaccato l’articolazione all’altezza del polso. Quella mano lì
l’aveva tenuta da parte in una scatola, tutto lo scheletro intero sino al polso.
Dopo cena, e si cenava presto verso le sei e mezzo, ci si preparava e alle nove si usciva. Maglione,
giaccone pesante e sciarpa di lana, io però il capello proprio non lo sopportavo e quindi portavo
soltanto i paraorecchie… Mese di gennaio eh… che freddo boia che faceva!
Gelo e luna piena. Senza la luna non si prendeva niente. Di plenilunio invece le trote giravano solo
di notte a cacciare freneticamente e poi sparivano.
Alla luce della luna le lattine1 brillavano. E allora erano solo cromate, non belle argentate come
adesso, e non è che si vedessero poi molto, però l’acqua era trasparente, così trasparente che col
sole vedevi giù fino a dieci, undici metri di profondità.
Nel buio anche il lago luccicava, scuro sotto la luna tonda e splendente in mezzo al cielo pieno di
stelle. Che splendida visione il lago d’inverno!
Vello, il paese in cui sono nato e in cui abitavamo, era il paese ideale per la pesca. Vello per la
pesca era proprio un paradiso! Uscivamo e ci dirigevamo verso Toline lungo la Corna. Lì ci sono
fondali molto profondi, che per la trota erano l’ideale. Ogni tanto, raramente, capitava anche
qualche grosso cavedano. Una volta ne ho preso addirittura uno di tre chili e otto etti. Era quasi
nero. Caspita che cavedano!
Quasi sempre tirava un vento ghiacciato. All’inizio ti tagliava il fiato ma era puro, piacevole da
respirare. Sembrava soffiare direttamente dall’acqua, quasi fosse l’alito del lago stesso. Buttavi
vapore dalla bocca, ti sentivi acceso, fortunato e contento di essere lì, malgrado tutto quel freddo.
C’erano sempre un po’di onde però, che mi facevano diventare un pochettino balordo. Avevo il mal
di mare o meglio il mal di lago, diciamo. Quella strada là, la strada vecchia, che adesso è solo
ciclabile, allora anche la sera era trafficata da camion e macchine a tutta velocità. Non c’erano le
gallerie di adesso, non c’era la strada sopraelevata. E insomma spesso mi girava la testa, quasi mi
veniva l’urto del vomito a vedere tutti quei fari passare. Che roba scécc! Però stavo là, stavo là,
stavo là. Avevo preso di quelle trote così grosse la notte, mamma mia che belle! Mio padre, quando
ancora ero piccolo, una notte ne aveva presa una che appoggiata su una tavola di legno, quelle che
le donne una volta adoperavano per lavare, era lunga come la tavola, anzi addirittura un po’ di più!
Erano delle trote bellissime quelle. Lacustri autoctone, vere lacustri argentate. Non ne ho mai presa
una di appena un chilo, sempre più grosse. Non so come mai. Quando le prendevi, quelle trote lì da
un chilo e mezzo, due chili minimo, ti sembrava di avere agganciato un caimano! Non erano mai
vinte. E questo l’ho imparato sulla mia pelle quando ho sbagliato a salpare una grossa lacustre
particolarmente vivace. Sì, perché mio padre recuperava le trote e a me spettava il compito di
guadinargliele. Di solito, per quanto fossi solo un bambino, ero già abbastanza capace. Ma quella
volta lì, prima che fosse ben dentro il guadino, avevo toccato la trota, apparentemente domata, e
quella di colpo si era rianimata, facendo leva sul cerchio aveva dato un’estrema poderosa codata e
se n’era schizzata in aria per poi ricadere in acqua ormai libera dall’amo! Mio padre allora si era
infuriato e mi aveva mollato uno sberlone. Papà, gli ho detto con le lacrime agli occhi, però, se mi
picchi, a pescare con te non ci vengo più! E lui non mi ha mai più toccato.
Eh sì, malgrado tutto, mi sento molto fortunato. Ho trascorso dei momenti proprio fantastici grazie
alla pesca. E di notte le trote le vedevi brillare. Tiravano come matte e poi saltavano fuori
dall’acqua, come saette d’argento alla luce della luna. Quanto saltavano le nostre trote lacustri!
Sembravano magiche. Forse erano magiche per davvero.
Con il plenilunio, dopo un po’, fatta l’abitudine, ti sembrava di vedere quasi come di giorno. Era
tutto nitido al chiaro di luna.
Quelle trote erano bellissime ma, per loro sfortuna, erano anche buonissime da mangiare. Le
mettevamo sul fuoco di legna con la griglia. Che carne saporita, ragazzi! Al confronto il pesce di
adesso non sa più di niente. Quelle trote lì erano il massimo, dopo i salmerini però, intendiamoci,
che erano ancora più buoni. Quanti ne ho presi anche di quelli… Cucchiaini ondulanti piccoli, sui
50 mm di lunghezza, argentati. Sì, quando non c’era già più mio papà, che andavo io da solo, li
facevo argentare. Li vedevi molto bene sott’acqua. I salmerini si pescavano sui 50 metri di
profondità.
Di solito si andava giù verso Gallinarga, però nel mese di Ottobre che era il periodo migliore. Si
pescava con il piombo praticamente a 60 metri perché quando il piombo toccava il fondo eri a 60
metri. E li prendevi tutti sull’ultima lattina o sulla penultima. Erano quasi tutti sui sette o otto etti.
Una livrea stupenda quella del salmerino. I più piccoli, sui quattro etti, mezzo chilo avevano
addirittura le pinne gialle. Mi dispiaceva trattenerli ma erano talmente gustosi. Per me, ripeto, era il
pesce più buono del lago, più ancora della trota perché aveva un gusto più delicato.
Ma i salmerini sono finiti nell’86. E gli ultimi che ho preso, proprio prima del Trentapassi, in quella
conca là… ne avrò presi una cinquantina in tutto, poi più niente. In tutto il lago sono spariti.
Malgrado ci fossero ancora delle nuvole enormi di alborelle. Tantissime. Allora ci passavi in mezzo
e quasi sempre prendevi.
Poi per miracolo, quando ormai sembravano perduti per sempre, nel 1995, mi pare, ne ho presi
ancora sette. Gli ultimi sette. Però quasi alla foce dell’Oglio, tra cui anche quello di tre chili e due
etti, il più grande che avessi mai preso o che avessi mai visto, se è per quello. Quegli ultimi
salmerini erano tutti molto grossi, due chili e sette, due chili e mezzo. Si erano spostati lì, ma
dovevano essere gli ultimi sopravvissuti. E li avevo presi strisciando col piombo, erano proprio
attaccati al fondo.
Adesso sotto i quaranta metri non c’è quasi più ossigeno, il loro mondo è diventato un inferno.
Noi uomini l’abbiamo reso inabitabile. Allora invece le guardie provinciali mi avevano spiegato che
i salmerini fregavano anche a centodieci metri di profondità, figuriamoci. Mettevano le reti per
prenderne qualcuno per l’incubatoio. Si sono estinti perché in quegli anni, dalla metà degli anni
ottanta in poi, il lago si è stratificato, non si è più girato e le acque profonde sono rimaste senza
ossigeno. Siamo stati noi. In pochi decenni abbiamo distrutto un regno millenario. Abbiamo
avvelenato il lago che ci ha ospitati sulle sue rive, dissetandoci e nutrendoci per secoli, di
generazione in generazione. Siamo stati degli ingrati. E non ho ancora capito cosa mai ci abbia
preso così di colpo. In fondo c’eravamo comportati abbastanza bene sino ad allora. Poi è arrivato il
progresso, sono arrivate la chimica e l’industria pesante, con i loro veleni, il fosforo, l’azoto e tutte
le altre sostanze inquinanti e… addio bel lago!
Nel 1964, qualche tempo dopo il disastro(2), sono venuto via da Vello e sono arrivato a Castro.
Io sono del ’43 e quindi quando pescavo con la luna piena a Vello, ero soltanto un ragazzino.
Quella passione lì, in particolare quella della pesca a traina con il borò me l’ha lasciata mio padre,
ripeto. Gli sono davvero molto grato. E’ stato il regalo più bello che potesse farmi prima di
andarsene troppo presto, così inaspettatamente.
Certo, allora era davvero pieno di pesci. Pescavo anche con la tirlindana, i lucci. Mamma mia,
quanti ne ho presi anche di quelli! E davvero grossi, eh... Che poi, di veri mostri me ne sono
scappati tre nella mia vita. Uno addirittura si tirava appresso la barca! Stavo pescando con la
tirlindana. Purtroppo non son riuscito a vederlo perché mi si è slamato prima. Mi ha tirato con la
barca per una quindicina di metri, una barca da caccia da 8 metri, neh, mica una barchetta! Non
riuscivo a far niente… m’ero fatto su il filo sulla mano perché non ce la facevo più a tenerlo tra le
dita e la barca andava… e mi faceva male. Poi a un certo punto si è fermato e ha fatto dietrofront, è
ritornato indietro dov’era abboccato. E improvvisamente è andato giù a fondo, dritto come un
fuso… pòta, non riuscivo più a fermarlo, figuriamoci a tirarlo su e… tac! Mi si è slamato! Ripeto,
non ho neanche visto che pesce fosse. Ma era un luccione senz’altro. Sarà stato dodici o tredici chili
come minimo…e allora non c’erano i siluri, sicurissimo che era il luccio. Perché in quel posto lì ne
avevo già presi diversi, sui sei, sette chili e uno di otto chili. Con i cucchiaini che mi facevo io.
Anche altra varia attrezzatura me la facevo tutta io.. cucchiaini ne avrò là una cinquantina di tipi…
ero proprio appassionato alla pesca ecco. E il ricordo bellissimo di quegli anni lì mi è rimasto
dentro. E’ indelebile.
Di trote poi io ne ho presa ancora una molto bella quattro anni fa. Era otto chili e settecento
grammi di trota. Bella bella ma non la nostra autoctona eh… era una trota di quelle che mettono
dentro… ecco la differenza che c’era tra le nostre autoctone e queste qua, è che una trota delle
nostre di un chilo sembrava tirare come una di cinque chili di adesso. Quelle erano pesci proprio
diversi, meravigliosi. Ma purtroppo le nostre trote autoctone si sono estinte. Estinte, sì, si dice così
ma la colpa è solo nostra. Anche quelle le abbiamo sterminate noi con i nostri maledetti veleni.
L’ultima l’ho presa nel 1999. Dopo non ne ho più prese e quella là era quattro chili e mezzo. Avrei
voluto filmare la scena con una cinepresa per mostrarla a tutti quanti. Che lotta! Quando saltava
fuori mi tirava su tutta la pesca (la lenza con i cucchiaini e il piombo finale ndr), faceva dei salti di
quasi due metri fuori dall’acqua!! Prima si slanciava su con la testa e poi giù, così… “splash!” e io
che mi dicevo: < Ecco! E’ andata! >… e invece c’era ancora!! Tre volte ha fatto quella scena lì di
saltare fuori, tre volte l’ho creduta perduta e invece alla fine l’ho presa! Che trota fantastica… Una
vivacità incredibile… mentre queste qua di adesso in confronto… in confronto sembra di tirar su
uno straccio!
Però ecco almeno per un po’ne avevano messa qualcuna, adesso sono anni che non ripopolano più e
non c’è dentro più niente, più niente. Il lago è cambiato tantissimo… e forse anche noi siamo
cambiati con lui. A chi come me che l’ha visto così sano e bello, adesso mette tristezza.
Forse però il lago, se lo lasciamo in pace, saprà riprendersi e tornare allo splendore di un tempo…
lo spero tanto… per davvero.
(1) Speciali cucchiai ondulanti, spesso autocostruiti, utilizzati per la trotiera, localmente chiamata “borò”.
(2) L’alluvione e la conseguente frana, che la sera dell’undici luglio 1963 travolse Vello, distruggendo completamente la casa
dei Guerini. Morirono la madre, il padre, due sorelle di Gianfranco e Luigino Soardi di soli dieci anni. Scamparono
fortunosamente al disastro Gianfranco stesso, i suoi tre fratelli Fausto, Guido e Luigi, la loro sorellina Rachele e il padre di
Luigino, Tirzio Soardi. Quest’ultimo era uscito in barca insieme al figlio da Carzano di Montisola, dove abitava, per
stendere le reti poco dopo l’abitato di Vello. Quando si erano accorti che stava arrivando l’uragano prudentemente avevano
attraccato per non correre rischi e l’amico Giuseppe Guerini li aveva invitati a casa sua, poco distante da lì, la stessa casa
che un’ora e mezza dopo sarebbe stata travolta dalla fiumana di massi e fango.
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