Di Riccardo Ceoldo pubblicato il 17/02/10
Ecco uno dei racconti scelti per la pubblicazione del concorso Amarcord. La classifica è stata stilata solo per i primi tre racconti, gli altri sono considerati ex-aequo.
Indiani
di Riccardo Ceoldo
Non ricordo il momento esatto in cui per la prima volta presi tra le mani una canna da pesca. Ma sono certo di chi ci fosse al mio fianco. Era mio zio Mario. Un uomo di bassa statura, ben piantato, con una faccia larga che ospitava due occhi gentili e una bocca sempre pronta a piegarsi in un sorriso. Le sue mani nodose portavano i segni della sua passata professione, il falegname, e un paio di falangi le aveva lasciate alla nobile causa del legno.
Fortunatamente quando io lo conobbi era già in pensione, perciò poteva dedicare molto tempo al suo nipote più piccolo e alla sua più grande passione, la pesca.
Passai buona parte della mia infanzia da mia nonna Flora e mio nonno Ignazio, nella cui casa viveva anche mio zio con la sua famiglia.
Ogni mattina mia mamma mi ci portava con il suo cinquino rosso e mi riprendeva la sera, finito il lavoro.
Le mie giornate si riempivano di una vita che sta scomparendo. Seguivo mio nonno nell'orto, lo aiutavo a piantare i semi e a raccoglierne i frutti, aiutavo mia nonna ad allevare le galline e qualche volta a "tirare il collo" a quelle povere bestiole, per essere poi servite al pranzo domenicale quando tutta la numerosa famiglia si riuniva, sotto lo sguardo felice e compiaciuto del nonno Ignazio.
Ma ciò che più amavo era andare a pesca con lo zio Mario.
Partivamo noi due soli, sul suo rombante "ciao" blu. Mio zio seduto in sella reggeva il manubrio, mentre io che dovevo avere non più di 5 anni mi sistemavo in piedi tra lo zio ed il manubrio stesso. Di tanto in tanto mi lasciava impugnare la monopola dell'acceleratore così mi divertivo a lanciarci a tutta velocità mentre lui mi urlava impaurito di rallentare.
Probabilmente se vedessi ora una scena del genere mi affretterei a chiamare la polizia, ma quelli erano altri tempi, in cui eravamo tutti un po' meno civili ed un po' più liberi.
Le nostre mete erano i fiumi della campagna padovana. Il Tergola, il Muson dei sassi, il possente Brenta ed il suo naviglio.
Partivamo da Vigonza e dubito superassimo la decina di chilometri nelle nostre scorribande alieutiche.
Mio zio pescava solo "pesce bianco" ed utilizzava solo canne fisse. Eravamo armati alla leggera. Un paio di canne sui 5-6 metri, qualche metro di lenza sottile, una forbice, piombi e qualche amo. L'arsenale da gara rimaneva a casa. Noi si andava per divertirci e per affinare la mia tecnica piuttosto scadente.
Ma con il tempo iniziai a cavarmela. La canna non mi sembrava più cosi pesante e lanciare il galleggiante dove desideravo divenne naturale. Imparai a legare un finale e a scegliere la piombatura esatta per far affondare rapidamente l'esca sul fondo o viceversa per lasciarla svolazzare nella corrente. Mio zio era un maestro paziente. Mi insegnò ad osservare il fiume per carpirne i suoi segreti e a leggerne l'acqua per scovare il punto esatto dove affondare la mia esca, e mi insegnò a riconoscere, a conoscere, ad insidiare ma soprattutto a rispettare i pesci.
Le nostre prime catture erano sempre girasoli e piccole alborelle, che tormentavano la mia esca e facevano tremolare il galleggiante non riuscendo a trascinarlo via. Poi, quando la pasturazione leggera cominciava a dare i suoi frutti, scendeva una calma che noi pescatori sappiamo essere solo apparente. Iniziavo a fissare il galleggiante con ansia crescente pronto a vederlo scomparire senza alcun tentennamento. E allora ferravo con decisione. Il momento più emozionante delle mie prime catture era lo scorgere la sagoma della mia preda emergere dal fiume, impaziente di vedere che cosa avessi catturato. Più il combattimento si protraeva, più la speranza di una grossa preda aumentava.
Carassi, cavedani, grosse scardole, pighi, carpe mi facevano urlare di gioia e con il tempo non ci fu più il bisogno di vederlo per capire che pesce fosse, l'abboccata ed il comportamento in combattimento erano più che sufficienti per capire con che gradito cliente avessi a che fare.
Una mattina mio zio mi disse: "Oggi andiamo a caccia di bisonti". Lo guardai un po' stupito, non sapevo che nelle campagne padovane vivessero tali bestie. Ma mi fidavo di lui. Poi vidi che preparava le nostre solite canne e rimasi ancora più stupito. Non sapevo che i bisonti si pescassero con le canne da pesca. Osservai la lenza per verificare di che
prodigioso prodotto si trattasse visto che doveva reggere alle sgroppate di quei bestioni e scrutai l'amo perché per forza di cose doveva essere estremamente grande. E invece non notai nulla di diverso dall'attrezzatura che utilizzavamo per pescare tutti gli altri giorni. Ma non dubitavo di mio zio. Sapevo che non si faceva beffe di me. E per dimostrargli che facevo sul serio presi del trucco di mia nonna e mi dipinsi il volto. Mio zio approvò
gravemente la mia scelta mentre con cura preparava le nostre armi. Venne il momento di partire. Presi commiato dai miei nonni con solennità, non essendo sicuro di rivederli ancora, e accarezzai il mio piccolo cagnolino che doveva aver capito a che cosa stavo andando incontro perché guaiva e sembrava volermi impedire di partire. Ma mio zio era già in sella al nostro cavallo, che carico di benzina, sembrava non vedesse l'ora di lanciarci lungo la strada. Mi sistemai nella mia consueta posizione e partimmo. Gettai un ultimo sguardo dietro la mia spalla e vidi la nostra casa diventare sempre più piccola, fino a scomparire.
Lasciammo il paese per inoltrarci nella campagna. Davanti a me solo campi. Da un momento all'altro mi aspettavo di scorgere la sagoma di un enorme bisonte. Finalmente mio zio arrestò la nostra marcia. A pochi metri da noi correva un fiume, al di la del quale cresceva un fitto bosco di alberi molto alti, che senza ombra di dubbio dovevano essere sequoie. Smontammo da cavallo, e mio zio si mise un dito davanti al naso: bisognava fare silenzio. Dovevamo essere vicini ai bisonti. Procedemmo a carponi tra le erbe alte fino ad arrivare alla sponda del fiume. Mio zio aprì le erbe davanti a noi e si lasciò fuggire un grido di gioia.
Si girò sorridendomi e mi indicò la mandria di bisonti.
Ed in effetti quel giorno vidi a pochi chilometri dalla città di Padova una mandria o meglio un branco di 9 bisonti.
Erano a non più di 10 metri da noi. Nuotavano controcorrente a pochi centimetri dalla superficie e potevo scorgerne benissimo il dorso verde scuro, i riflessi laterali dorati e i grossi ventri gialli. Non lo so se la memoria mi inganni ma sono certo che quei bisonti avessero gli occhi rossi.
Mio zio sfoderò le armi, e me ne passò una. Nel frattempo il branco cominciò a spostarsi in profondità e mio zio mi disse che era un ottimo segno perchè significava che erano in attività e probabilmente alla ricerca di cibo.
Lo Spirito del Fiume doveva essere per forza di cose dalla nostra parte.
Innescai un grosso verme e lanciai. Il mio galleggiante rimase fermo per una decina di minuti ma continuavo a rimanere estremamente concentrato. E poi finalmente fu inghiottito dalle acque. Il cuore mi balzò in gola mentre mio zio si voltò a fissarmi per osservare come avessi reagito alla carica di uno di quei bestioni. Senza troppi complimenti sollevai
il mio Tomahawk e colpii. Il bisonte si infuriò ed iniziò a galoppare lungo la prateria ma io glielo impedii assecondando le sue fughe per poi forzarlo a ritornare in superficie. Mio zio affianco a me sorrideva. Non ricordo quanto durò quella lotta ma alla fine ebbi la meglio su quella magnifica bestia. Una volta portata a riva mio zio sentenziò con profondo
rispetto: "Ecco La Gialla".
Era una magnifica tinca, la mia prima tinca.
Negli anni a seguire io e mio zio continuammo a pescare assiduamente e ci facemmo valere anche in gara. Pescavamo sempre nei medesimi fiumi che cominciai a conoscere come le mie tasche. I pesci, grandi o piccoli che fossero continuavamo a regalarmi grandi emozioni.
Oggi, a distanza di 25 anni, con un vestito elegante e a bordo di un auto raccomandabile, mi capita di ritornare in quei luoghi che animarono la mia infanzia. Ripercorro le sponde di quei fiumi ma difficilmente incontro piccoli pescatori guidati da vecchi saggi. Vedo sempre più frequentemente montagne di rifiuti, vedo canali totalmente dimenticati dalle amministrazioni locali e dagli abitanti, vedo fossi e fiumiciattoli tombati per lasciare spazio al cemento.
Vedo gruppi di persone che vengono da terre lontane non rispettare ciò che ci è sempre appartenuto. Li vedo pescare in modo barbaro, con attrezzature sovradimensionate, spesso con ancorette al posto di ami, e tutto ciò che catturano muore, svuotando cosi i nostri amati corsi d'acqua. Nel peggiore dei casi ho visto alcuni di questi "pescatori" appostarsi nelle strette anse dei nostri canali con una rete e recuperarla piena di carassi, cavedani, carpe e tinche. Tutti destinati a morire.
Quando decido di calare un amo invece vedo solo breme e altre specie alloctone, sapientemente introdotte da sciagurati progetti di mantenimento delle nostre acque. Mi chiedo allora dove siano finiti i pesci che pescavo con mio zio da lui chiamati gobbi, vaesane, scardoe, tenche.
E allora recupero la mia esca e torno a casa disgustato e sconsolato. E penso che quel mondo che ho vissuto da bambino è stato spazzato via. Abbiamo lauree prestigiose e scarpe consumate dai nostri continui viaggi eppure quanti giovani sanno come si chiamano gli abitanti dei nostri fiumi? Quante persone conoscono come un tratto
fluviale dev'essere curato? Non è questa forse conoscenza? Non è questo sapere? Non è questa cultura?
Se le Americhe furono invase dai conquistatori europei che in un secolo riuscirono a cancellare millenni di cultura pellerossa, l' Europa è stata invasa da un' ignoranza profonda e disarmante e da una superficialità pericolosa che stanno cancellando in un batter d'occhio saperi antichi ed atavici che andranno per sempre perduti.
E quando me volto par vardar i oci ormai stufi de me xio, intravedo in iu uno dei ultimi indiani d'Italia. Uno dei ultimi custodi de na tradission, de na cultura, de vaeori che no se trova scritta sui libri e gnanca su internet.
E quando penso a tute chee robe che n'darà perdue par sempre no posso che provare na profonda amaressa e na grandissima tristessa.
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