Di Carlo Benaglia pubblicato il 25/03/10
Malgrado la mia giovane età mi capita speso di pensare al passato. E’ nella natura umana vivere di ricordi e rapportare il presente a ciò che s’è vissuto nel passato. Sono fortunato e ho avuto l’opportunità, fino ad ora, di pescare tanto, in tanti luoghi differenti. Lungo il mio cammino ho avuto l’onore di pescare o anche solo scambiare esperienze con pescatori più o meno abili dai quali ho cercato, sempre, di imparare qualcosa.. Avrei tante di quelle cose da raccontare che nemmeno dieci concorsi letterari sarebbero sufficienti a farmi esaurire gli argomenti.
Ricordi di pescate memorabili, ricordi di catture particolari, ricordi di giornate sulla riva di un fiume in compagnia di amici speciali che, nel corso degli anni, hanno intrapreso percorsi differenti dal mio. Potrei parlare del passato come farebbe un ottantenne, di quelli che tutti i giorni vanno a trovare il Grande Fiume anche solo per salutarlo, di quelli con il volto solcato da rughe profonde che stanno lì sulle loro fronti come firma indelebile di gelidi inverni ed estati roventi trascorse sulle rive di un qualche corso d’acqua. Potrei, come sono soliti fare questi hard disk della memoria popolare, parlare, con malinconica nostalgia, dei tempi passati, raccontando di epici combattimenti con storioni da 200 chili, di nasse gonfie di pesci che ormai non ci sono più o di quando, sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale, la pesca era un’arte atta a sfamare la famiglia.
Potrei parlare del passato, di pesca e di pesci come farebbe un odierno agonista sul viale del tramonto. Rammentando i bei tempi passati, le gare da 20 chili di cavedani a testa pescati con le canne fisse. Potrei raccontare di vittorie a squadre o individuali, di titoli persi per pochi grammi, di migliaia di alborelle pescate in tre ore con “cannine” di due metri e mezzo. Potrei spiegare come, la passione per la competizione si stia progressivamente assopendo in maniera direttamente proporzionale al calo di sportività tra gli agonisti ed al rarefarsi dei campi gara in grado di garantire pescato uniformemente distribuito sui vari picchetti.
Potrei parlarvi di pesca come se fossi già nel 2090, fingendo di raccontare com’era l’attuale presente e tentando di immaginare il futuro.
Volendo, potrei parlare di pesca come fanno quasi tutte le differenti “razze” di pescatori sportivi diffuse sul nostro territorio. Potrei parlare da “moschista” per incantare e catturare l’attenzione dei “moschisti” raccontando di una fario mozzafiato catturate sulle Alpi. Potrei parlare da “carpista” per raccontare ai “carpisti” di quando le carpe si prendevano con la polenta e nel Po, con le reti, si facevano i pesci da 35 chili. Potrei raccontare di “surfisti” (da canna e non da tavola) che hanno iniziato a fare lanci pendolari con “cannoni” in fibra e manici in alluminio oltre 25 anni fa.
Dico che potrei, perché, in realtà non ho alcuna intenzione di farlo. Potrei perché ho voluto tesoro, talvolta ho rubato, i ricordi di tutti quelli con cui mi sono rapportato in questi anni. Potrei raccontare i ricordi di decine di personaggi, più o meno noti, senza alcuna velleità di spettegolare, ma perché sono vent’anni che vivo, penso, mangio e respiro pesca. Perché se si ha una passione come la mia, non si può e non ci deve limitare al presente. Si deve conservare una memoria storica ampia, da abbinare ed integrare con il proprio bagaglio di esperienze.
Potrei scrivere un comune racconto strappalacrime fingendo di essere qualcun altro. Potrei raccontare di romantiche pescate con mio nonno, ma purtroppo nessun nonno mi ha mai insegnato a pescare. Potrei raccontare di come mi sentivo felice quando avevo dieci anni ed andavo pesca con mio padre, ma mio padre non ha mai pescato. Potrei raccontar balle che sono più reali e credibili della verità, per ammaliare, per attivare i più reconditi meccanismi emotivi di chi mi leggerà, per far commuovere o per far sorridere, sfruttando ad arte quel mix di malinconico rimpianto che si attiva nella mente di chi legge dei bei tempi che furono.
Oggi più che mai, però, sento la necessità di raccontare la mia versione della storia. La mia visione concreta e assolutamente disincantata di un passato alieutico, il mio, assolutamente poco poetico e decisamene concreto.
Ho trent’anni e pesco da più di quindici in maniera, se non seria, quantomeno appassionata.
Non ho avuto possibilità alcuna di riempire tre anelli della nassa con savette da chilo e mezzo, non sono arrivato in tempo per combattere e catturare il mitologico ladano, incontrastato re delle correnti del grande fiume.
Quando ho iniziato a pescare, buona parte dei ricordi romantici tipici del pescatore anziano comune, erano già retaggio del passato. Ciò non significa che non conservi ricordi di cui valga la pena discutere.
Ricordo, in maniera indelebile, come, lungo i fiumi che frequentavo in età adolescenziale, si trovasse qualche lenza abbandonata con ancora infilato un vecchio galleggiante rotto, mentre oggi, lungo gli stessi corsi d’acqua trovo borse di plastica colme di rifiuti, residui di bivacchi e porcherie di ogni genere.
Ricordo piuttosto bene gli anziani che pescavano a fondo le ultime anguille rimaste, sperando, magari, di incappare in una delle poche che riuscivano a risalire il Po, valicando il simbolico “muro neonazista” eretto per trattenerle in quel di Comacchio. Ricordo come quegli anziani se ne siano lentamente andati, una alla volta, abbandonando il mondo terreno quasi a voler seguire e ritrovare le loro amate anguille in paradiso.
Sebbene siano trascorsi pochi anni, ho un ricordo chiaro di un’epoca che pare ormai irrimediabilmente andata. Un’epoca in cui si partiva da casa in bici, in motorino o in auto e si poteva andare a pescare senza timore di trovare strade sbarrate.
In quel periodo meraviglioso della mia vita, gli argini, le carraie le stradine che portavano a fiumi e stagni erano costituivano l’ultimo tratta di percorso da affrontare con il cuore in gola perché consci che, di lì a poco, si sarebbero sfoderate canne e mulinelli e si sarebbe dato il via alla pesca. In quel periodo gli argini e le carraie erano la parte finale di un viaggio che conduceva alla felicità. Oggi la parte finale di quel viaggio, ha assunto sfumature e profumi diversi. Si sente puzza di multe perché non esiste chiarezza sulla percorribilità di tutto quello che non è asfalto. Il profumo dell’acqua che si avvicina, ha assunto il fetido odore di fazzolettini di carta bagnati e di preservativi usati per consumare amplessi in auto, nella notte, da chi si sbatte la fidanzata e se ne sbatte delle regole e dei divieti di accesso.Il cuore in gola, ora, non è più per l’ansia di mettersi a pescare, ma per l’ansia di dover abbandonare la propria auto in parcheggi lontani, individuati da amministrazioni miopi su cartografie datate. Se poi, il parcheggio dovesse essere sicuro, il cuore in gola me lo garantiscono i chilometri di strada da percorre a piedi carico come uno sherpa in partenza per il K2.
Ricordo bene la mai gioventù, quando pescando con una canna fissa di cinque metri e con duemila lire di bigattini, si potevano catturare almeno sei o sette specie di pesci differenti. Autoctoni e alloctoni, forse per innocente ignoranza, forse per totale assenza di spirito razzista, no costituivano un problema. In quei giorni rilasciare un carasso o un siluretto gravava moralmente sulla mia coscienza alla stregua del prelevare mezzo chilo di alborella per farne un frittura. Erano anni di spensieratezza eppure vissuti nel pieno rispetto dell’ambiente e del pescato.
Ricordo con rammarico quel periodo in cui gli alloctoni erano solo una piacevole variante ai pesci
”nostrani”. Oggi pare costituiscano la causa di tutti mali; il siluro, come Giovanna D’Arco, va cacciato ed arso al rogo; l’amur , affamato divoratore di erbe, va eradicato dai canali di bonifica come fosse il virus del vaiolo. E’ curioso che, in tanti anni di pesca, gli unici alloctoni di cui mi sia trovato ad aver timore siano comparsi di recente lungo i fiumi ed anzichè squame e pinne abbiano gambe, braccia, nasse da bracconieri, barche e motori a scoppio.
Per gli alloctoni pinnuti ci sono istituzioni che studiano le strategie più strambe per limitarne la proliferazione, obbligando i pescatori ad attuare carneficine forzate senza volersi rendere conto che l’unica a poter porre rimedio alla diatriba sarà Madre Natura. Per gli alloctoni deambulanti, invece, non si muove un dito ed, ancora una volta, si obbligano i pescatori, questa volta a sottomettersi ai nuovi padroni dei fiumi venuti da oltre confine.
Ricordo che erano ancora pochi quelli che si definivano “…isti”, per lo più erano tutti “…ori”, per l’asattezza “pescatori”. Contava poco che si poggiasse il deretano su un panchetto accessoriato o su una sedia da carpfishing, contava stare in riva all’acqua e provare a cavarne qualcosa.
In quegli anni, le icone di noi giovincelli non erano affermati pescatori dei Black Bass vestiti come piloti da rally messi alla guida di potenti Off Shore. Non imitavamo gli inglesi andando a pescare in tenda, fingendoci carpisti, con l’intento unico di mascherare dieci “canne” da fumare con tre canne da pesca poggiate su un rod pod.
Ricordo un epoca in cui, possedendo una regolare licenza di pesca e la tessera della Federazione, si entrava di diritto a far parte di un mondo meraviglioso, fatto di contatto con la natura, di una varietà possibilità di acque pescabili, con pesci di ogni taglia e specie. In quell’epoca il pescatore era un privilegiato che, attraverso al propria passione, poteva godere appieno delle meraviglie dell’ambiente fluviale o lacustre. Un’epoca orami passata in cui i pesci si prendevano nel Po, nell’Adda, nell’Arno all’ombra del campanile di Giotto, nei bacini idroelettrici, nei torrenti, in montagna ed anche nei fossi vicino casa. In quel periodo i pesci si prendevano perché avevano ancora acque in cui nuotare, fondali sabbioso e qualche lanca per riprodursi.
Oggi i fiumi sembrano degli autodromi con gurdarails fatti di enormi prismi in cui la corrente, le piene, i detriti ed i rifiuti passano alla velocità di vetture di Formula Uno per poi alla stessa velocità verso il mare, lasciando alle spalle catastrofi, danni e vittime, anziché, come vorrebbe la natura, donare nuova linfa vitale per le acque, i suoi abitanti ed i terreni circostanti.
Ho trent’anni ma di ricordi ne ho archiviati parecchi. Alcuni sono miei, altri li ho rubati ad ignari compagni di avventure. Del passato ricordo le cose belle e quelle brutte, ricordo quello che c’era e ora non c’è più. Sono contento, dopotutto, di aver avuto l’onore di assistere a certi cambiamenti perché se si riconoscono le brutture del presente significa che si ha avuto la fortuna di poter vivere epoche migliori nel passato.
C’è chi rimpiange i tempi andati, ma non sono il tipo. Mi piace imparare dal passato, vivere il presente accompagnato dai ricordi e dalle esperienze, magari gettando un occhio al futuro.
Siamo tutti troppo abituati a guardarci alle spalle con la rassegnata consapevolezza di chi è sicuro che ciò che è passato era meglio del presente e comunque non tornerà.
Non sono più tanto sicuro che tutto quello che ho detto di ricordare corrisponda alla realtà dei tempi passati. Forse corrisponde più ad una visione idealizzata e oltremisura romantica di un pesca che in realtà era già in declino Di certo rimane solo il presente, perché sotto gli occhi di tutti.
Non so se i mie ricordi sono reali o offuscati, se sono il passato o se corrispondano a come mi accontenterei che fosse il futuro. Di sicuro so solo che, ai miei figli, se avranno voglia di stare a sentire i miei ricordi, vorrei poter dire che il passato era un’epoca oscura da cui siamo finalmente risorti.
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