Racconti

Amarcord: racconto 1° classificato "sembra solo ieri"

Di Mirko Castellan pubblicato il 24/03/11

La bottega paterna di generi alimentari del fedele amico, compagno di pesca, chiude alle dodici e mezzo, mi dileguo da casa prima dell’ora di
pranzo non reggendo più al morbo della pesca che corrode le viscere dal mattino. Mamma non è ancora arrivata e ho lasciato un biglietto ben visibile sul tavolo: Mamma sono andato a pescare col Cesare. E’ lo stesso biglietto dell’altro giorno ormai uso sempre lo stesso. La mia mamma non lo butta mai via ormai è abituata.

Oggi è l’ultimo giorno di vacanza ed è una perfetta, calda e soleggiata, giornata di settembre accompagnata da quel leggero venticello che darà frescura alla nostra pelle stuzzicata dal sole rovente.

Mi presento chiaramente in anticipo, non potrei mai arrivare puntuale.

Varco la larga porta del negozio.

Ci cerchiamo con gli occhi, ansiosi come fossimo pronti a marinare la scuola; è già capitato e sai che catastrofe levarci di dosso l’odore di pesce prima di entrare in casa. Nel periodo estivo lui aiuta suo padre ma il pomeriggio la bottega è chiusa e quindi……., mezza fantastica giornata di pesca.

In pratica come quasi tutte.

La retroguardia delle ultime e solite casalinghe in ritardo sull’orario di chiusura ci angoscia. Non possiamo partire fino a che la saracinesca è alzata. Tassativa disposizione di quel finto burbero di suo padre che sorride girandosi dall’altra parte e che oggi, ricordo con tanta tenerezza in quei suoi finti atteggiamenti da despota.

Ovviamente sottovoce per non farmi sentire dagli altri mi rivolgo a Cesare.

– Si fa al mattino presto la spesa, non a mezzogiorno! Porca trota! Diglielo a quelle comari!–

Quella più anziana spettegola sui vicini.

– Forza, forza, abbiamo fretta, che importa a noi degli inquilini e del gatto del condominio, dobbiamo andare a pescare!-

Non riescono a leggere la nostra fretta, l’impazienza, e allora anticipiamo i tempi mentre suo padre serve quelle rompiballe delle indesiderate signore Cesare, affetta prosciutto, pancetta e mortadella, per preparare quattro sostanziosi panini per il pomeriggio vista l’impossibilità di trovare il tempo per mangiare caricando le canne e tutto quello che serve sulle biciclette, ormai consapevoli e rassegnate vittime delle nostre frenetiche pedalate.

- Un litro di latte! – Finito! –

- Giù le serrande ………, si chiude! Si chiude!!!!!

- Via, via, tutte fuori dalle balle. -

Il mondo si trasfigura in un istante, diventa una moviola, dove tutti sono lenti, troppo lenti per la nostra foga.

Carichiamo gli zaini in spalla in un baleno cercando di non trascurare nulla e partiamo pedalando a manetta, è tutta discesa e di solito impieghiamo circa una mezz’ora per raggiungere la riva ghiaiosa del lago.

Superiamo il sentiero del bosco, giriamo la barca e mettiamo il tappo sul fondo. Barca in acqua, ci siamo, ore due e mezzo. La barca era del nonno di Cesare, per noi fin da ragazzini vero santone della pesca e nostro docente di quel che sarebbe stata la malattia della nostra vita. Godeva come un matto nel portarci a pescare e a spiegarci le piccole cose fondamentali della pesca e del suo lago; lui lo riteneva tale. Non capivamo quel senso di possesso ma oggi anche noi lo chiamiamo il nostro lago. Purtroppo è mancato due anni fa e spesso quando saliamo in barca, ci coglie la malinconia. La mia mamma non è molto contenta che noi si vada da soli, ma si è rassegnata, a condizione che ci si porti sempre il salvagente. Lei non comprende che è ingombrante e lo lasciamo sempre a riva. Non l’ha mai saputo, nemmeno oggi; se legge questo racconto, è capace di farmi ancora la ramanzina. Le nostre movenze istintivamente si trasformano, si amalgamo nella dimensione composta di quell’ignoto che non sappiamo, ma ci palpita dentro, nei contorni dei monti sovrastanti il lago. Ci incorporiamo nelle piante, nelle rive, nelle rocce e nell’acqua che con le sue onde sul fondo della nostra 3.70 in alluminio ci ricorda l’affetto che abbiamo per queste lastre di metallo rivettate e siliconate assieme, compagne di momenti felici che non cambieremmo mai per un cabinato di otto metri, forse bellissimo, ma per noi privo di semplicità essenzialità e di anima.

La nostra barca, e dire nostra per noi è motivo di orgoglio, è stata ribattezzata a rivarata, dopo la morte di nonno Luigi, con un litro di spumeggiante lambrusco dolce fregato in negozio al papà di Cesare che sicuramente si è accorto, ma ha fatto finta di niente.

A nonno Luigi piaceva tanto il lambrusco dolce e qualche tazza la passata anche a noi pur se ragazzi.

-Bevete, bevete che fa sangue. Non ditelo a casa però se no mi fanno la testa come un pallone.-

Canne alla mano, come elementi fusi nell’esistere circostante inseguiamo branchi e branchetti di alborelle sempre pronti a lanciare le miracolose lenze a dieci ami.

L’ora non è la migliore ma il fascino è irresistibile nell’insistere bruciati dal sole mattacchione nascosto ogni tanto dietro a qualche nuvola di passaggio.

Un persicotto con le sue caratteristiche striature rosse abbocca ogni tanto e ci rassicura sulla zona di pesca prescelta se arriva l’ora buona, sembra che al momento il lago abbia per gelosia nascosto i suoi persici.

Ci conosce, quante volte siamo venuti a portargli il buongiorno all’alba.

Si fida di noi. E’ un amico quando non si arrabbia con le sue onde, insidiose vendette gelose per i giorni in cui ci ha atteso invano.

Il retino, rigorosamente comune, ci guarda un poco deluso, conta solo tre pesci. – Un po’ pochino, eh? –

- Cesare, ti sei visto il naso rosso cotto dal sole? Un bel nasone bruciato e chissà se ……….!! Ecco! …….. Ecccccooooooooooo!!!!!!!!!!!!!!!!

Frullano le alborelle…….. i persici sono in caccia!

Sono le cinque e mezzo e come protagonisti di un film western destati dall’attacco improvviso di altri indiani, dissotterriamo l’ascia di guerra e ci trasformiamo mentalmente e fisicamente in quegli esseri strani che chiamano pescatori con la P maiuscola, quegli esseri immuni dal freddo, dal caldo, dai dolori, dal gelo, quegli esseri che in alcuni istanti scompaiono dalla vita normale come magici santoni in meditazione.

Ci si sposta a remi alle spalle del branco, i canottieri muscolosi sul lago sembrano invidiare il nostro remare.

Chissà all’oratorio quelli che a quest’ora devono andare in chiesa se non il prete domani non li fa giocare a pallone? Strapparsi i capelli, inveire, piangere mentre io, ah, come mi frego le mani.

Le canne prendono vita, risorgono dall’immobilità costretta nelle ore precedenti, a ogni aggancio di alborella segue dopo pochi secondi quello strattone che crea i brividi, che aumenta le pulsazioni, che pervade dalla testa ai piedi il nostro corpo come un orgasmo privo di pudori.

- Ferrato! C’è! Guarda come viaggia, sarà mezzo chilo! – Pompa e friziona, è nel guadino, è in barca ma non c’è tempo per guardarlo, è il momento magico tanto atteso e dobbiamo viverlo ora, sappiamo già alla nostra età, non potremo più in tutta la vita riaverlo identico, forse simile o più bello ma uguale mai più. – Passami il guadino. –

Si lancia, si ferra, si sbaglia, s’impreca quasi con dolcezza, tremano le mani, le gambe secche che sporgono dai calzoni corti, al mondo non c’è altro. – Ho ciccato porca vacca! –

Com’è iniziata così finisce, la natura ha imposto le regole. E’ trascorsa un’ora e mezzo e sembra passato un’instante.

Il retino annuisce con la sua forma il reale trascorrere del tempo, il fondo della barca è pieno di alborelle dimenticate nella fretta, di piombi cambiati senza il tempo di rimetterli nel contenitore, cartoncini ormai privi della lenza avvolta, briciole residue dei panini spariti nelle ore precedenti.

Rilassati e contenti con qualche rara abboccata, qualche cileccata rimaniamo ancora sul posto per tirare l’ora del rientro.

-Cesare sono le sette sarà meglio andare altrimenti, vedi stasera i tuoi e i miei che fine preparano al tuo naso e alla mia schiena ancora bruciata dall’altra volta.

- Hai ragione cominciamo a chiudere. –

Come fosse scritto dal destino che stabilisce ogni momento della nostra vita in base all’imprevisto, la canna di colpo si curva fin quasi a sfuggire dalla barca, una presa fulminea e senza ferrata alcuna la frizione del mulinello parte con quel rumore che ci esalta.

Sbigottiti, ci guardiamo senza parlare.

Ci siamo capiti! Questo è un signor luccio.

Se ne va al largo.

- Mirko rema, rema! –

Prendo i remi e colpo dopo colpo lo seguo, dobbiamo stargli sopra se lasciamo troppo filo, può girarsi e tagliarlo con i denti.

Cesare, secco come un chiodo, sedere stretto e calzoni corti, in punta alla 3.70, quasi fosse un cabinato d’altura, sfodera tutta l’arte piscatoria che lo distingue e non da tregua all’animale ormai diventato per noi un pachiderma preistorico.

Se dovessi provare i battiti cardiaci, ora rischierei lo svenimento.

La barca sembra dare consigli e noi la prendiamo in parola come sempre.

Ah, povere quelle barche ancorate e ferme nel porticciolo! Strumenti utilizzati solo per esaltarsi del possesso senza dar loro quelle gioie che meritano. La nostra sembra quasi gonfiarsi il petto all’invidia delle amiche troppo borghesi.

- Come sarà? –

- Almeno dieci chili!-

- Sicuro?-

Non ho idea del tempo che trascorre mentre comincia a diventar buio tra una puntata e l’atra, tra una virata e un’imbarcata.

Per un’instante, in un sogno ad occhi aperti, appare l’immagine torbida e furibonda di mia mamma che di solito, quando vado a pescare, mi aspetta per le otto e mezzo, ma è solo un’instante.

I cellulari li inventeranno fra qualche anno.

Se dovesse leggere questo racconto ……

- Mirko comincia a venire a galla –

Mi guardo attorno e delle montagne vedo solo un’ombra scura, della riva una linea nera, mi accorgo che siamo quasi in mezzo al lago.

- Eccolo, eccolo! –

Un’ombra nera e lunga arriva vicino alla barca e per un’instante vedo il lago di Loch Ness, scorgo Ulisse, le sirene; se la barca è lunga 3.70, questo è almeno un metro e mezzo, altro che dieci chili.

- Come lo tiro fuori? –

Il guadino sembra un retino da farfalle.

- Mi serve un gancio, un qualcosa. Datemi qualcosa! Dammi qualcosa! –

E’ ripartito è sceso ancora e adesso chi lo tiene più. –

- Sono le dieci! –

- E chi se ne frega. –

- Come non detto, era solo per dire.-

Punta ancora e se ne va ma teniamo duro e gli ritorniamo sopra, risale, lo vediamo ancora ed è veramente grosso. Batto i denti, sto tremando. No! Non è l’aria fredda.

Lo immagino, è impossibile portarlo in barca.

- Dai! Mirko dai! –

Cesare ha le braccia disfatte e cambiamo i posti, io la canna e lui i remi, mi vengono in mente i documentari di pesca d’altura e a ogni instante mi aspetto di vederlo saltar fuori dall’acqua come fosse un Marlyn.

- Esagero? –

E’ buio pesto. Le luci rosse e bianche del traghetto scuro passano non troppo distanti da noi, scruto il mio socio in faccia e mi accorgo che nonostante lo spazio ristretto della 3.70 sarà un’ora che non lo guardo in volto.

Mi sembra quasi gli siano spuntate le branchie al posto delle orecchie.

Possedessi la macchina, fotograferei due figure stordite dall’agitazione; due bambini colmi della felicità consumata in un giorno di pesca.

TAKKKK ………. - NOOOoooooo!-

-NOOOooooo!!!!-

Quel TAKK metallico che non avremmo mai voluto sentire ci deforma le orecchie fino a crearci dolore alle tempie e la vista della canna dritta, non più in tensione dopo due ore di vita, ci lascia increduli al buio, come due ebeti, in mezzo al lago, il nostro amato bacino.

Non esce alcuna imprecazione dalle nostre bocche, un rispetto astrale per quel pesce ha reso mute e insensibili le nostre articolazioni all’aria fredda e pungente arrivata già da un po’.

Lo sciacquio dei remi nell’acqua ci riaccompagna a riva verso le luci della sera, nel silenzio che solo il lago ti può far sentire e, come frati in ritiro spirituale, tiriamo a riva la barca e la giriamo con una carezza dolce, quasi fosse una sorella e ci avviamo verso casa.

Le biciclette in salita non hanno più la parvenza di stalloni da corsa, assomigliano tanto a delle mucche pezzate che camminano sul dosso di una montagna. Mentre socchiudo gli occhi per la stanchezza, per i fari delle macchine che vengono incontro e per i fanalini di chi ci sorpassa, la luce del fanale proiettata sull’asfalto, sembra riflettere la scritta:

- Nonno Luigi forse l’avrebbe preso quel bestione! –

Siamo quasi arrivati, ormai sono le dieci passate, sai le facce a casa.

Lascio di fretta la bici in cantina e salgo di corsa.

Entro nel corridoio e la luce in fondo della cucina e accesa ma il tavolo è vuoto, nessun piatto pronto, il silenzio domina la casa.

Le urla di mia madre, uscita dal bagno, improvvisamente rompono il silenzio:- incosciente, disgraziato, è l’ultima volta, con il Cesare non vai più. Le canne te le brucio.-

Il resto ve lo lascio immaginare.

Il mio religioso silenzio privo di giustificazioni mi salva anche da qualche scappellotto.

Quando è proprio furiosa minaccia di bruciarmi le canne. Dalla fretta mi sono anche dimenticato di nasconderle.

La prossima bigiata per andare a pesca la devo studiare bene se mi scoprono, sto giro mi rompe davvero le canne.

A letto, chiudo gli occhi pensando a quella brava donna di mia madre, e la capisco, ha ragione, ma che posso fare io se il telefonino non l’ha ancora inventato nessuno. Nel buio della stanza intravedo il tenebroso scuro dei monti, la barca, un amico, una canna piegata, l’ombra di quel pesce fantastico e mi sento, con un po’ di presunzione, un sarto che cuce nel proprio io questo ricordo con gli altri, quei momenti insostituibili e affascinanti ritmicamente portati poi negli anni. Mi sento come un antico capo indiano che prima di morire raccoglie i pezzi più belli della vita e li porta sulle alture per donarli a chi li vuole, a chi li comprende, a chi li raccoglie.

Dai! Dormi pirlone, domani c'è scuola porca trota.

Quella notte non ho dormito, come poi tante altre nella mia vita per l’agitazione di andare a pescare la mattina dopo.

Tante altre pescate abbiamo vissuto assieme ma quello era il nostro primo pesce grosso, anche se anno dopo anno, ci siamo resi conto che non era certo dieci chili, ma non ci importa, per noi è rimasto enorme. Oggi, dopo trent’anni, nonostante il pesce sia sempre meno e, le alborelle merce rara, le volte che ancora usciamo, ovviamente sempre con la stessa barca, che non capisce i capelli bianchi e, i nostri vari dolori alle ossa, dicono tutti che i dolori sono conseguenza dell’umidità del lago, torniamo i ragazzi di quell’indimenticabile sera nel ricordo di quel pesce memorabile.

Spesso il nostro pensiero va ancora a nonno Luigi e al suo lambrusco.

Ovviamente per ambedue, nel trascorrere degli anni, i ritardi e le ore strane di rientro dalla pescata si sono ripetute per tante altre volte. Quando però al rientro la sera non c'erano più le nostre mamme che si rassegnavano, ma le rispettive mogli, al momento della richiesta di separazione non siamo stati in grado di farci spiegare se era dovuta alla gelosia ossessiva provata per quest’amante semplice che ci portiamo dentro, fatta di solitudine, di compagnia, di cose dell’universo, di canne, di ami. Poche e umili cose di piccoli materiali che danno alla vita un respiro tanto profondo da diventare fantascienza per chi non lo sente.

Quante volte nelle notti in cui l’unico compagno fedele era il cuscino, speravi di avere una moglie, un poco sirena che ti capisse, ma sotto sotto già pensavi alla successiva pescata?

Forse avevano ragione.

Le compagne attuali speriamo resistano o perlomeno ci capiscano ormai non possono essere gelose siamo vecchi.

La loro domanda però arriva sempre per caso, così almeno loro dicono. Capita ovunque, a casa, al ristorante, a letto, in viaggio, mentre guardate il tramonto, mentre avvistate l’alba.

-A che pensi?-

Vi chiedono.

Voi di solito rispondete: - a niente.-

Bugiardi!

Invece si pensa sempre, sempre!

Un lavoro pazzesco, straordinario, incessante.

Non è possibile non pensare alla pesca.

Quel che si pensa è un segreto inviolabile, è la grande assoluta libertà che regna nella nostra testa, chissà in quale punto, in qualche stanza.

Nel caso in cui non c’è un problema che vi pizzica, qualcosa della quale non avete l’obbligo di pensare, dove va la vostra testa?

Di solito alla pesca.

Eh si! Che mondo sarebbe se no?

Questo godimento trova ascolto nella nostra presunzione di poter insegnare agli altri l’umiltà che ci distingue, quando abbiamo tra le mani una canna di bambù e una scatola di vermi.

Penso che ogni volta in cui menzioniamo un ricordo di anni addietro il cui oggetto è la pesca, torniamo tutti bambini e adolescenti perché l’adolescenza non è sempre definita dall’intervallo stabilito dall’età ma, dallo spirito del momento vissuto e dal ricordo, che col passare del tempo ci sembra sempre più distante.

Guardiamoci tutti a uno specchio e noteremo che ogni volta che diciamo:- domani si va a pescare. - il nostro volto si trasforma fino a far sparire le rughe, i problemi, i dolori delle articolazioni, la serenità ci coglie.

Insomma anche a sessant’anni in quel momento ci sentiamo bambini, adolescenti con la mente libera e piena di sogni per una nuova avventura.

Sarà capitato anche a voi mentre a casa preparate una lenza per il domani con davanti tutti i galleggianti colorati di sentirvi dire da dietro le spalle: ma papà, sembri tuo nipote di dieci anni!-

Per me, alla mia età, ogni atto o incancellabile memoria di pesca è come il ricordo della mia eterna adolescenza.

Io almeno la vedo così.

 

 


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