Racconti

Battuta al lago nord

Di Marco Fosca pubblicato il 28/01/11

 

Partimmo due ore prima dell’alba sotto una fitta pioggia, e dapprima non fu necessario spezzare il ghiaccio sul canale perché erano già passate altre barche.

Probabilmente cacciatori che risalivano il fiume alla ricerca di germani reali.

Questa era senza dubbio la stagione ideale.

In ogni barca il barcaiolo stava ritto a poppa col lungo remo serrato tra le mani.

Noi eravamo seduti a prua su di uno sgabello fissato al coperchio di una cassetta che conteneva tutta la nostra attrezzatura e i viveri per affrontare i pochi giorni di battuta.

In tutto due barche che risalivano il canale principale verso il grande lago a nord.

Faceva sempre abbastanza freddo, ma la pioggia della notte prima era cessata.

Al lago ci arrivammo nel primo pomeriggio dopo aver attraversato un paesaggio bellissimo.

Camminai un po’ in cerca di una zona più calma godendomi l’ambiente.

Le acque scendevano veloci e spumeggianti nel loro largo letto giù dai monti che svettavano a distanza.

Godere del piacere dell’acqua limpidissima che corre fra il verde cupo delle abetaie fitte e diritte, respirare gli odori del sottobosco umido di muschi e di ombre: anche questo fa parte della pesca.

Prima di iniziare a costruire le mosche era necessario scandagliare il fondale per farsi un’idea della “città nascosta” che popolava il fiume.

È una sorta di avventura in una realtà abitata da minuscoli organismi che tessono silenziosi la storia di ogni corso d’acqua.

Uno sguardo dalle sponde di un ruscello, fra cinguettii che si smorzano ai

nostri passi può dirci molto.

L’acqua fluisce limpida, aggira vivacemente i ciottoli e carezza con la sua cantilena antica i fondali.

Agili guizzi di pesci disegnano a momenti la corrente.

Eppure questo paesaggio acquatico non ha solo i pesci a fare da involontari protagonisti.

Basta rivoltare un sasso anche parzialmente immerso, per scoprire decine di animaletti a dir poco “stravaganti”.

Sono i macroinvertebrati.

Con un retino a maglie strette, provvisto nella parte terminale di un recipiente di raccolta, proviamo a scandagliare ghiaie e limi del letto fluviale, rovistando fra ramaglie sommerse e vegetazioni acquatiche.

Ed ecco come per incanto un’estemporanea raccolta di larve d’insetti, crostacei, chioccioline e conchiglie multiformi….tutti inquilini di una “città vivente” che continuamente si rinnova come nuova è l’acqua che vi giunge a rifornirla di ossigeno e cibo.

Il paragone con la città non è casuale.

Come nelle collettività urbane si dipana un’immensa rete di professioni ed attività fra loro diverse ma interdipendenti, analogamente in ogni ambiente acquatico ben strutturato si riconosce un’incredibile varietà di organismi che occupano “nicchie” ben definite.

Come i barcaioli ripresero il largo montammo il campo base e cominciammo a costruire le mosche per il giorno dopo.

Enzo era il mio maestro in questa difficile ma affascinante arte.

Lo incontrai per la prima volta nell’84.

Era metà marzo, pescavo sul fiume Liri, quando due giorni prima di Pasqua arrivò, da solo, con un’elegante valigetta in legno scuro e gli immancabili tubi di canne.

Lo vidi poi nei giorni successivi sostare a lungo su di una corpulenta trota  che normalmente noi facevamo “salire” gettandole dal ponte palline fatte con mollica di pane raffermo.

Lo prendemmo un po’ bonariamente in giro, ma alla sera, Enzo riportò la grossa trota.

Doveva essere intorno ai tre chili.

Raccontò di averla catturata con una piccola ninfa, a notte fonda, quando ormai disperava di poterci riuscire.

I più anziani dicevano che Enzo era un bravo e che ogni anno prendeva là, sempre, un pesce da trofeo.

Aveva iniziato ad usare la coda di topo a sedici anni e da subito dei buoni maestri non mancarono nel perfezionarlo  nel lancio e nella conoscenza sul comportamento dei pesci, l’evoluzione degli insetti e le rispettive imitazioni.

Da quell’inizio sono passati vent’anni che sono serviti ad Enzo a perfezionare la sua tecnica e soprattutto a farsi un’esperienza che solo pochi riescono a realizzare.

I luoghi dove Enzo ha pescato, ben raffigurati in grandi posters che adornano le pareti della sua casa, rimangono per i più sogni irraggiungibili: Terra del Fuoco, Patagonia, Tasmania, British Columbia, Montana, sono i giardini sacri delle grandi trote.

Fra questi itinerari ambiti non poteva mancare l’Alaska, ma non è il luogo in cui tornerebbe volentieri.

Un grave incidente non gli ha lasciato quello che si può definire un bel ricordo.

Enzo è un pescatore solitario, si muove preferibilmente da solo anche nei luoghi citati alla fine del mondo.

Ci è sempre andato da solo spinto dalla determinazione, aiutato dalla conoscenza di tre lingue e con le poche notizie raccolte da riviste specializzate.

Sul fiume è un acuto osservatore.

Ricordo l’anno scorso, in Francia, sul massiccio centrale, quando una sera assistevamo alla solita schiusa di “olive” di fine stagione.

Le effimere scivolavano sull’acqua, con le ali dritte, cullate dalla corrente ed al momento di alzarsi venivano sistematicamente ghermite da numerose trote e temoli.

Montai, sicuro, una sperimentata imitazione aspettando l’inevitabile aggancio e invece….niente.

Intanto Enzo, una cinquantina di metri a monte ad ogni lancio prendeva un pesce.

Si era accorto che, a differenza del giorno prima, le trote non prendevano le effimere ben visibili, ma le loro spoglie allo stadio ninfale leggermente sotto il pelo dell’acqua.

Come artificiale aveva scelto un “boujet” senza ingrassarlo, un dressing con corpo grigio ed hackles di gallina che normalmente si usa sommerso, ma che può, all’occorrenza, avere anche altre utilizzazioni.

Nonostante le sue indubbie capacità non è persona di quelle che si vantano o che, ancor peggio, vivono per la pesca.

Riservato, ma non schivo, con sobrietà parla delle sue esperienze solo se richiesto.

La sua attrezzatura di pesca assai curata e composta da accessori talvolta fatti fare su misura da valenti artigiani, è rimasta però all’antica: usa soltanto canne di bambù referendu e code di seta naturale.

Nel rivangare i ricordi passati trascorremmo la prima notte.

Appena mettemmo fuori la testa dalla tenda, nell’umidità fredda del mattino, la prima occhiata naturalmente fu per le acque del lago.

Fummo subito ben svegli ed adrenalinici.

Al posto delle tranquille correntine scendeva a valle una valanga di acqua impetuosa effetto di chissà quale stramaledettissima diga.

Il livello era più alto di 60 – 70 centimetri di acqua che prendendo d’infilata i 50 metri di alveo piatto rendeva impossibile la pesca.

Di bollate nemmeno a parlarne.

Poiché comunque continuavano a svolazzare innumerevoli sedges, ci mettemmo di gran lena a costruirne in maggior numero e varianti possibili.

Fu allora che silenzioso si avvicinò un pescatore del posto che risalendo il canale aveva l’aria di non avere nessuna fretta.

Incuriosito dall’attrezzatura che avevamo sparpagliato intorno fu attratto in maniera evidente dal materiale da costruzione.

Dopo la prima iniziale ritrosia la curiosità ebbe il sopravvento e si mise con noi a occhieggiare nelle scatole.

Lo scambio di sigarette suggellò una istintiva amicizia, come succede spesso tra pescatori.

Desiderava i nostri ami, era evidente: li ebbe.

Aveva una canna in fibra che poteva essere lunga non più di quattro metri, una coda di topo marrone forse affondante, un finale a nodi di circa due metri e mezzo e due mosche fatte in casa: una olive ed una specie di whickam’s fancy.

Le altre mosche della sua scatola, anche se non perfettamente costruite, beninteso secondo quella che è la nostra concezione, ricalcavano i modelli classici con una netta supremazia di mosche semisommerse che avevano tutta l’aria di funzionare.

Nel frattempo “lo straniero”, o forse sarebbe più appropriato dire “l’indigeno”, ci disse che verso le dieci il livello del lago sarebbe tornato normale per poi rialzarsi verso il pomeriggio inoltrato.

Grossi trote avrebbero bollato e stendeva il braccio in avanti facendo la misura dell’altezza del gomito ed anche più su.

Poi indicando la curva che il lago faceva a monte ammiccò sornione e s’incamminò scomparendo tra la vegetazione lungo le sponde.

Il livello delle acque in effetti, anche se lentamente, si stava abbassando, per cui, terminata la vestizione, mi incamminai anch’io.

Il sole usciva ad intermittenza dalle nubi cariche.

Avevo voglia di pescare.

Trovai Enzo che in wading da metà lago lanciava verso la riva opposta dove il fondale aumentava.

Aveva già preso un bella trota.

A qualche decina di metri di distanza c’era lo straniero pescatore che attento lo osservava.

Entrai in acqua addentrandomi fino a dove mi era possibile e poi ridiscesi lentamente in favore di corrente sbirciando il sottoriva dove l’acqua spumeggiava appena su una piccola rapida.

Nemmeno una bollata.

Allora mi fermai in attesa: la correntina era bellissima.

Adesso eravamo in pesca.

Passarono tremule sull’acqua ed anche alcune mosche di maggio, ma furono quasi del tutto ignorate dai pesci.

Le sedges che avevamo costruito funzionavano egregiamente.

All’ora della spaghettata eravamo molto soddisfatti per le catture della prima battuta.

Essendo tre pezzi il limite di cattura giornaliero ci limitammo a quelli e quindi avevamo trattenuto pochissimi esemplari per la grigliata.

Nel pomeriggio decisi di andare a valle e solo iniziai a discendere le acque.

In un punto dove il letto piano del lago, sotto la riva sinistra, si avvallava un po’ facendo una buca di una cinquantina di centimetri…trote e cavedani bollavano a ritmo frenetico.

Scesi subito in acqua a valle della “zona calda”; mi spostai verso il centro ed iniziai a pescare di traverso lanciando a monte.

La sedge funzionava ancora e subito presi una bellissima fario.

Poi la superficie si picchiettò di tremuli punti gialli che sparivano sotto l’assalto frenetico dei peci; si trattava di una schiusa di eptagenea sulfurea come non ne avevo mai viste.

Mi fosse venuto un accidente se avevo con me una mosca gialla!

Rovistai in tutte le scatole e pur avendo mosche chiare in tutte le tonalità di gialle neanche l’ombra.

Continuai allora a provare alcuni dei modelli più possibili barando col pesce lanciandogli le mosche ora quasi addosso ora a monte sul filo di corrente che avrebbe portato la mosca precisamente sulla bollata appena vista.

Catturai cosi alcuni cavedani enormi e diversi trote.

Enzo, che nel frattempo mi aveva raggiunto, si era piazzato a monte ad una trentina di metri da me e partecipava alla festa, ma anche lui niente mosche gialle!

Alzando gli occhi dall’ennesima mosca che avevo cambiato improvvisamente ebbi la percezione di qualcosa di strano: i pesci non bollavano più.

Spostando lo sguardo a monte vidi avanzare sull’acqua una larga macchia di schiuma minuta.

La diga!

Quando ero in zona sicurezza indirizzai subito lo sguardo in direzione di Enzo.

Arrancava verso di me con l’acqua al petto.

Poi urlò qualcosa e mollata la canna si buttò a pesce verso riva guadagnandola a nuoto con alcune vigorose bracciate.

Andai verso di lui e pallido di paura e di freddo mi disse come l’acqua lo stesse sollevando e come non avesse avuto altra scelta se non quella di buttarsi a nuoto abbandonando l’attrezzatura al fiume.

La sera davanti al caldo abbraccio del fuoco l’episodio rinfocolò più volte la conversazione.

Il giorno si annunciò con una spruzzata di pioggia che battendo sulla tenda ci svegliò.

Fuori tirava un vento freddo per cui indugiammo alcuni minuti nel caldo del sacco a pelo.

Poi la pioggia cessò e quando anche il livello del lago si fu abbassato andammo insieme a vedere di ritrovare la canna.

Come previsto senza risultato.

Poi pescando ci dirigemmo a valle.

Io proseguii ancora più a valle e trovai un posto dove la corrente scivolava lungo la leggera curva della riva opposta creando una zona di pesca perfetta.

Ed infatti i pesci non tardarono a bollare.

Tirava da valle un vento forte e tagliente che penetrava nelle ossa come una lama e sull’acqua veleggiavano pochissimi insetti.

Erano ancora le eptagenea sulfurea!

Come sempre rimango affascinato da questi tremuli puntini di vita che scendono con la corrente verso valle.

Le ali dritte nell’aria, l’esile corpo sospeso sull’acqua quasi a sottolineare l’indecisione e la paura del grande balzo da un elemento all’altro…

Un fremito di ali, un brevissimo volo impacciato e la caduta finale sull’acqua.

Poi di nuovo, questa volta con maggior sicurezza e finalmente l’insetto si libra nell’aria rapito dal vento.

Una grossa ombra scura si stacca improvvisamente dal fondo e, salendo veloce, si staglia, nell’acqua trasparente, contro il fondo.

Un attimo, una capriola, e dove prima stava per volare una effimera adesso si allarga sull’acqua una bollata sorda.

Sono nuovamente subito teso nell’euforia selvaggia della caccia.

Riesco a non lanciare subito per osservare meglio e con più calma.

Era là, dieci metri da me, leggermente a valle e saliva ad intervalli regolari a prendere l’insetto che passava di turno.

Mi decido per una sedge che rare graffiavano l’acqua con il loro volo sfarfallante.

Lancio una, due, quattro volte.

Niente.

Tra un lancio e l’altro il grosso temolo sale a prendersi un altro insetto.

Cambio mosca e lancio di nuovo: una passata perfetta, la mosca scende vaporosa come una subrette d’altri tempi verso valle proprio nella giusta traiettoria.

Eccolo che sale!

Compare dal fondo a sorpresa ma a pochi centimetri dalla mosca ci ripensa e si immerge.

La mosca passa indenne.

Maledetto!

Ma di certo non sarò io a buttare la spugna!

Rilancio e come sospettavo questa volta non viene neppure a curiosare.

Passa una eptageea sulfurea e subito la fa sparire.

Accidenti a lui.

Poi ignora un paio di mosche di maggio che ha certamente visto.

Dopo avergli presentato senza successo diversi artificiali dettati dalla logica, entro nel campo delle scelte della disperazione e mi decido per una minuscola A4 di Devaux.

Nulla ha a che fare su quello che striscia sull’acqua, ma a questo punto devo usare tutta la mia artiglieria.

Il freddo che mi attanaglia le mani rende quasi impossibile il nodo.

Il vento, a raffiche, manda a farsi fottere la presentazione ottimale dell’esca.

Dopo un paio di lanci sbalestrati dal vento, lanciando da tutt’altra parte, riesco a mandare la mosca dove voglio io.

Si adagia, indugia un attimo poi scende con la corrente…si avvicina….Preso!

È venuto su deciso e la ferrata non è stata da meno: proprio mentre, presa la mosca stava puntando veloce verso il fondo.

Ora scende veloce: sono costretto a cedere coda.

Devo cercare assolutamente di rimanere calmo.

Improvviso, in un’esplosione di schizzi, salta fuori dall’acqua contorcendosi nell’aria.

È bellissimo.

La canna vibra sotto le sue puntate verso il fondo ed è allo spasmo.

All’improvviso non sento più il freddo.

Recupero lentamente un po’ di coda e cede.

Ora è a galla e lo vedo: è proprio un bel temolo…

D’improvviso la canna mi muore tra le mani e la coda si affloscia inerte sull’acqua.

Adesso il freddo mi attanaglia nuovamente le mani.

La natura è più forte!


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