Di Gabriele Giani pubblicato il 24/05/10
E’ con la canzone del Piave che si può cominciare questo racconto. Forse perché di storia me ne raccontava tanta mio padre che aveva vissuto sulla sua pelle la seconda guerra mondiale. E così, nelle serate passate di fronte al camino della casa in montagna, si sbizzarriva a ricostruire puntualmente le vicende accadute a lui ed a suo padre molti anni prima. Non so come facesse a ricordare in modo così vivo fatti, personaggi e vicende della storia italiana di quei periodi.
E poi, prima di arrivare a Perarolo di Cadore ( BL ), che è la meta del nostro pellegrinaggio, si passa da Longarone che è diventato tristemente famoso a causa del disastro del Vajont, avvenuto il 9 ottobre 1963. Fu causato da una frana staccatasi dal versante settentrionale del monte Toc. Milioni di metri cubi di roccia scivolarono nel bacino artificiale sottostante, creato dalla diga del Vajont, provocando un’onda di piena. Questa risalì il versante opposto alla frana, distruggendo tutti gli abitati lungo il lago nei comuni di Erto e Casso. Poi l’ondata scavalcò il manufatto, che rimase miracolosamente intatto, riversandosi nella valle del Piave. Venne completamente raso al suolo il paese di Longarone ed altri limitrofi. Ci furono circa 2000 morti. Il fatto fu citato come un caso esemplare di disastro evitabile. E da allora, purtroppo, ce ne sono stati molti altri. Avevo dieci anni, ma ricordo perfettamente quelle vicende. Le immagini impressionanti alla televisione e la discussione accesa che seguì in famiglia. Quando vidi lo spettacolo coinvolgente di Marco Paolini nel 1997 “ il racconto del Vajont “ mi sembrò di fare un tuffo nel passato.
Sono questi quindi i sentimenti di rispetto che mi animano quando passo da queste parti, prima di immergermi nello spirito del fiume.
Ma torniamo alla narrazione degli aneddoti più strettamente legati alle nostre avventure di pesca.
Dopo l’intermezzo pasquale, leggere il report sulle avventure inglesi di Mr. Bean, Roberto ed io ci sentiamo per vedere dove possiamo tornare a fare del danno. Il socio in questione si definisce Grande Mago, come un noto personaggio comico di Zelig Circus. Non discutiamo nemmeno. Sappiamo benissimo dove vogliamo andare. Cerchiamo di coinvolgere qualche losco figuro del club della mosca. In particolar modo quelli che sono venuti con noi durante l’ultima uscita in Piave il 20 marzo. Luca the president, Palì the driver con la sua Dacia sw, il Pittore che non sta mai zitto e va benissimo per prevenire i colpi di sonno mentre guidi. Fu un’uscita molto gelida. Temperature vicine allo 0, pesci disinteressati alle mosche secche ma un po’ attivi sulle sommerse o le ninfe piombate. Io scappottai con 3 trote e 2 bei temoli. Gli altri andarono un po’ meglio, ma il vento freddo del pomeriggio aveva intirizzito tutti. Chiediamo a Giampi, ma ce la dà ancora una volta buca. Non riusciamo a schiodarlo, se non raramente, dalla fameja, dal lavoro, dal figlio, dal prato da tagliare, etc.etc., chissà se verrà con noi a Giugno per la gita in Slovenia! E così dobbiamo ancora una volta sopportarci, Rob ed io naturalmente. Ormai siamo, per così dire, una coppia collaudata. Il termine, ovviamente, si riferisce all’ambito piscatorio. Le menti maliziose abbandonino ogni torbido pensiero. Stiamo per dedicarci alla nobile arte descritta da Donna Juliana Berners, forse lontana parente della prorompente showgirl brasiliana Juliana Moreira che probabilmente si diletta a sviluppare altre arti. La Berners di professione faceva la suora inglese e scrisse un libro “ Fyshynge with an Angle “, pescare con una lenza, nel 1496. Questa badessa devota descrisse le ricette di costruzione per una dozzina di mosche artificiali da usare durante le più importanti schiuse di insetti della stagione. Anche il romanzo di Norman Maclean “ In mezzo scorre il fiume “ comincia con il concetto che “ Nella nostra famiglia non c’era una chiara linea di demarcazione tra religione e pesca a mosca “. Chissà qual è il collegamento tra la religione e la pesca! Digressioni letterarie. Tornando invece con i piedi per terra o meglio guardando sempre il cielo, nonostante la pioggia, le previsioni del meteo.it dicono che dove dobbiamo andare il tempo sarà discreto. Appuntamento alle 6 a casa di Roberto. E giù acqua! Ma perché dobbiamo imbarcarci in un’altra avventura di 300 Km., che tra l’altro non finiscono mai. Solo l’andata, perché dopo una giornata tosta bisogna tornarcene indietro. Del resto abitiamo in un posto, che come acque da trote offre poco. Minimo dobbiamo fare i 140 Km. per Sansepolcro ( AR ) alla volta della Tail Water Tevere. A volte andiamo sulle rive dell’Astico dopo Piovene Rocchetta ( VI ), 215 Km o nell’Adige in Vallagarina ( TN ) dall’amico Bettinazzi, 250 Km, dove in condizioni favorevoli prendiamo qualche bel temolo. Abbiamo provato a fare delle immissioni nel fiume Santerno gli anni scorsi, ma con scarso successo. Un po’ a causa delle piene nel periodo autunnale, quando si effettuano le semine, un po’ a causa del bracconaggio e la difficile vigilanza che si può fare in quel tratto di fiume, insomma, le esperienze si sono rivelate poco interessanti. Allora partiamo! Carichiamo la nostra attrezzatura nella C-Max che ho preso da pochi mesi. Comodosa come non mai. Ancora l’odore di nuovo che emana dagli allestimenti interni. Ma durerà poco. Al ritorno della giornata campale gli effluvi degli stivaloni usati in condizioni di umidità assoluta riempiranno l’abitacolo dell’auto. Prendiamo l’autostrada. Bologna, Padova, lo svincolo nuovo per Belluno che taglia la fatidica tangenziale di Mestre, gioia e dolore di tante passate avventure. Continua a piovere. Che la maledizione inglese mi stia perseguitando? Il viaggio è lungo. Rob è il classico uomo che non si racconta mai. Chissà come facciamo a fare tanta strada e dirci solo delle cazzate. Ci fermiamo a prendere un caffè. Facciamo il punto della situazione. E’ sabato 24 aprile. Potremmo svoltare per il Friuli tra pochi chilometri. Ci sono risorgive interessanti che non sono influenzate così tanto dalle precipitazioni: il Livenza, il Meduna. Ma bisogna fare prima il versamento sul cc postale e poi il permesso giornaliero. In più non conosciamo bene gli accesi a questi corsi d’acqua. Ci siamo stati solo un paio di volte. E poi che diamine, l’ottimismo è il profumo della vita, parola di Tonino Guerra come me pittore ed artista. Non è un momento di megalomania ma l’anno scorso, a Castel di Sangro ( AQ ), ho partecipato alla rassegna “ l’arte nella pesca…..la pesca nell’arte “ con un acquerello e mi avevano affibiato un patacchino da tenere ben in vista con su scritto, appunto, artista. Quindi tiremm innanz, come disse il patriota italiano Antonio Sciesa, e arriviamo a destinazione. L’ultimo tratto è costituito dalla panoramica che dopo svariate curve arriva nel paesello di 368 anime. Purtroppo dall’alto, con la coda dell’occhio perché sto guidando e ritrovarmi nel fiume dopo un volo di svariati metri sarebbe spiacevole, vedo una struttura rettangolare che costeggia la zona dove andremo a pescare. Rob mi dice che è una discarica per inerti. Adesso capisco perché l’ultima volta ho attraversato un sentiero devastato dalle ruspe. Mi pareva troppo bello il posto per essere vero. Ci doveva essere l’inghippo. Comunque il fiume è bellissimo, anzi un po’ velato. In realtà l’acqua non è trasparente, ma risente dell’acqua di neve che si sta sciogliendo e che viene giù dal fiume Boite, proprio alla confluenza con il Piave all’altezza di Perarolo. Sono le 9 del mattino ed arriviamo al bar prosciutteria “ Il covo dei Zatèr “ dove un vecchietto dal volto rubicondo e dal temperamento rubizzo ci fa i permessi. Lo incontreremo più tardi con il suo cane bastardo di razza e di fatto che tenta di morderci le ghette, il cane naturalmente.
Zatèr sta per zattieri, perché era da quest’area che partivano le zattere per il trasporto del legname diretto alla Repubblica di Venezia per via fluviale. In paese c’è anche un museo del legname e del cìdolo, struttura che faceva da barriera ai tronchi che scendevano a valle. Digressione storico- culturale. Al bar mi faccio fare 2 panini con lo speck, che proviene senz’altro dall’italianissimo speckificio di Unterberger Giuseppe posto a pochi metri di distanza, dalla signora Vittorina. Dopo dieci minuti mi pento dell’idea. Era meglio un sano digiuno. Senz’altro qui non hanno fretta. L’affettatrice farà al massimo un giro al minuto. Per ammortizzare i tempi vado in bagno. Al solo pensiero di farla con addosso i waders più tardi, mi girano i cosidetti. Di fronte al vater c’è un simpatico cartello scritto in veneto con una filastrocca su come lasciare pulito ed in ordine questo luogo di culto. Anche se c’è in giro qualche goccia siamo ben lontani dallo schifo che si vede in alcuni luoghi pubblici. Complimenti per l’educazione. Finiti i preamboli ci accingiamo alla vestizione. In cielo è rimasta qualche nube residua. Le previsioni ci avevano azzeccato. Sta venendo fuori proprio una bella giornata. Tuta, stivali, giubbino con dentro di ogni, cappello, occhiali, cellulare, permessi, canna, mulinello e chi più ne ha, più ne metta. Ho portato la canna doc di 9 piedi, un gioiellino di leggerezza ma nello stesso tempo robusta. Sul mulinello ho una coda del 4 DT per fare pose più delicate se riuscirò a pescare a secca. Ci avviamo goffamente verso la zona a valle del paese, quella definita libera perché si possono trattenere un certo numero di pesci. Ma non ci interessa perché non abbiamo intenzione di fare dei prigionieri. A monte c’è la zona no kill, dove c’è senz’altro più pesce, ma si può pescare solo mezza giornata e bisogna prenotare prima. Non importa. La prima buca è alla confluenza con il Boite e non si può pescare perché fa parte della zona a monte. C’ un bel temolo vicino a riva, probabilmente si sta riposando dopo le fatiche del periodo di frega appena trascorso. Mi avvicino per guardarlo mentre pinneggia calmo nel rigiro di corrente. Scendiamo nella buca più a valle e diamo inizio alle danze. Rob mi rifornisce di qualche ninfa piombata per pescare sotto e di qualche mosca secca nel caso i pesci dovessero venire a galla. Per vedere la palla di pelle di pollo, fatta da Apelle, figlio di Apollo. Anzi no, fatta da Roberto. Come al solito ho poche mosche con me e mi avvalgo della magnanimità del mio socio che è sempre ben fornito ed ottimo costruttore. Il colore dell’acqua non mi convince assolutamente, ma tant’è che siamo qui per smanettare. Peschiamo a risalire con la ninfa piombata ed il segnalatore. Una noia mortale se non si prende niente. Spesso mi incaglio sul fondo. Cambio peso della testina, colore, ma non c’è niente da fare. E anche Rob, che è molto più esperto di me in questa tecnica, non bolla niente. Decido di scendere a valle dove c’è una lunga buca con lama e raschio finale. Anche qui spugnetto per un po’ e poi mi fermo a sedere su un sasso. Accendo il cigarillo e guardo la superficie dell’acqua. Sono ormai le undici. Possibile che non succeda niente. Non una bollata o un movimento in superficie. Si alza un po’ di vento. Purtroppo qui il vento comincia a tirare da sud verso quest’ora, per poi continuare tutto il pomeriggio. Mi sono proprio stracciato i maroni di pescare a ninfa. Contro la riva opposta, dove ci sono degli alberi e qualche sasso che spezza la corrente, vedo una bollata. Non è un granchè, quasi uno sparnazzo da pescetto, ma tanto qui non ci sto a combinare un tubo. Metto su una mosca classica in cul de canard grigia, e per cul si intende esattamente la cloaca dell’anatra attorno alla quale si strappano le piume. Ahi, che dolor. Queste sono intrise di sostanze oleose e quindi galleggiano bene. Il numero dell’amo è piccolo e così pure l’occhiello in cui far passare il filo. Divento scemo per un quarto d’ora nel tentativo di infilarlo. Una volta ci vedevo bene da vicino. Ah, la vecchiaia. Metto e tolgo gli occhiali. Mi scivolano un paio di volte ma fortunatamente ho legato le stanghette con un cordino. E’ già tristemente successo che una pescata mi andò a monte perché l’indispensabile oggetto se ne andò via con la corrente assieme ad un tot di euri. Uso uno spillo apposta. Finisco l’elenco dei santi a cui chiedere aiuto prima ed a quelli a cui mandare gli improperi poi. Alla fine ce la faccio. Caccio un urlo disumano che riecheggia nella valle. Temo per uno smottamento repentino del terreno, ma ancora di più per lo spavento del pesce che invece continua la sua attività imperterrito. Sarà scemo e senz’altro mia vittima prescelta. Faccio un po’ di lanci e quando centro bene lo spot la trota sale fiduciosa sull’artificiale. Non è grossa, ma ben pinnata e combattiva. Improvvisamente suona il cellulare. Lo cerco tra le mille tasche ed alla fine lo trovo. Sto attento a non farlo cadere in acqua, visto che questa mi arriva appena sotto l’ombelico. Anche il bagno del cellulare è una vicenda tristemente accaduta. E’ il mio socio. Parla concitato. Ho attaccato un sommergibile, dice. Non sapevo che fosse scoppiata un’altra guerra, penso e realizzo subito che deve avere agganciato qualche cosa di veramente grosso. Rob, infatti, non è mai un cacciaballe, come altri che ben conosco e bisogna fargli la tara quando raccontano delle loro catture. Il fatto che mi abbia chiamato la dice lunga sul suo stato emozionale. Di solito è molto controllato. Non me la sento di fare un chilometro a risalire ed andare da lui per fargli delle foto. Ah, la macchina fotografica invece è impermeabile, così se cade in acqua non bestemmio. E’ un fine pensiero religioso. Riprendo il mio lavoro. Con la temperatura che aumenta si comincia a vedere qualche schiusa e con questa qualche bollata in più, ma sempre in una zona limitata. E’ una striscia immaginaria di una ventina di metri, sempre contro la riva opposta, dove si vedono già diversi cerchi sul pelo dell’acqua. Lancio a quello più vicino e prendo un temolotto. Purtroppo la mosca si impregna del muco del pesce e, anche se la lavo ripetutamente, dopo qualche lancio non la vedo più. Decido di cambiarla con una uguale. Ahi che dolor e che pazienza. Un altro quarto d’ora e il gioco è fatto. Dopo altre 4 trote, di cui una discreta sui 30 cm., mi tocca di rifare la stessa operazione. Questa volta decido di cambiare mosca. Metterò su una di quelle che mi ha dato Rob. L’ha chiamata rasatina. I mal pensanti saranno subito andati con la mente al monticello di venere privato della sua foresta amazzonica circostante. No, non è quello. La ricetta l’ha inventata Claudio, così si dice, che ha minacciato di morte qualsiasi persona che osi svelarne il suo segreto. Siccome ci tengo alla pelle rimarrò muto sull’argomento ed in ogni caso è intuibile che è una mosca da acque lente con pochi sfronzoli attaccati. Lancio la suddetta a monte su una bollata più consistente e viene su un bell’animalotto. E’ un bel temolo sui quaranta che mi impegna per qualche minuto. Del resto con un terminale del 12 non posso forzarlo molto. Lo giostro verso la riva da cui ero partito perché voglio portarlo in acque basse e fargli qualche foto. Senz’altro merita. Del mio amico nulla. Non si vede all’orizzonte ed è passata quasi un’ora dalla telefonata. Lo chiamo e mi dice che ha appena rotto il filo con il sottomarino, dopo che questi se l’è portato in giro in lungo ed in largo per tutta la buca. Era un grosso esemplare maschio di salmo trutta marmoratus. L’ha visto salire due volte e poi, dopo quasi un’ora, gli ha fatto il gesto dell’ombrello con le pinne pettorali e se ne è tornato nelle sue tane. Del resto, con del filo del 12, non c’era molto da sperare. Dice che viene in giù e mi raggiunge. Si ferma di fianco a me e racconta i particolari della vicenda. Si vede che è ancora emozionato. Gli dico che ci stiamo tutti e due nella posizione ma si è liberata la buca più a valle e preferisce andare là. Dovrà meditare. Si è rinforzato un po’ il vento e le bollate qui da me sono molto più rade. Dopo un po’ vedo da lontano che il socio è in tiro con un pesce e poi ancora un altro. Allora il maiale cattura. Decido di andare a fargli visita visto che è così fortunato. Ops, bravo. A parte gli scherzi è veramente in gamba, ha molto senso dell’acqua. La buca è corta, con dei grossi sassi sull’altra riva e due alberi caduti verso la fine. Il vento si è calmato ed una moltitudine di insetti sta sfarfallando un po’ dovunque. Sono effimere con il corpo rossastro che danzano in un balletto altalenante. Il mio compare dice di vedere anche delle piccole perle, alias Leuctra fusca o meglio Elettra fucsia come dice Yanes al club. Chissà cosa ci mettono dentro quei cigarillos che fumano. Qualche bel temolo ci bolla davanti ai piedi. Una caratteristica di questo pesce è che non teme l’uomo. A volte continua a bollare imperterrito a pochi metri dagli stivali. Cambiamo mosca in modo da usarne una simile agli insetti che schiudono. Lottiamo anche qui per svariati minuti con gli occhielli degli ami. Roberto è messo anche peggio. Non ci vede da vicino ed il sudore e la traspirazione gli appannano gli occhiali. Alla fine ce la facciamo e decidiamo di alternarci nelle catture. In ogni caso ci tengo a precisare che per avere la meglio sui timallidi ci vogliono le 3 C: cul de canard, che è il materiale di cui sono fatte le mosche; culo ovvero fortuna, detto anche fattore C; cazzo che bestia che è l’espressione di meraviglia alla vista del predone. Dopo 2 pesci mi abbandona per andare a vedere la buca più sotto. E’ proprio ombroso e solitario oggi. Io rimango e ne prendo un altro bello, proprio mentre 2 pescatori stanno risalendo e mi passano dietro le spalle. Si fermano a guardarmi. Faccio un po’ di scena, anche aiutato dai salti mirabolanti in cui si esibisce il magnifico pinnuto. Prendo il guadino da dietro la schiena e porto a riva il pesce per slamarlo, fare 2 foto e ridargli la libertà. I “ colleghi “ si complimentano e commentano che sarà neanche un 40, cm., e si allontanano. Colpito nell’orgoglio tiro fuori il metro avvolgibile e lo misuro. 44 cm. Tiè ! Ahi sti maschi, con l’ossessione delle misure. Il mio compito qui per adesso è finito. Scendo più a valle. La sassaia che attraverso mi sembra interminabile. E’ l’orario più caldo e dentro i waders in neoprene i cosìdetti sono roventi. Non trovo il compare. Nella buca più sotto non c’è nessuno. Scoprirò poi che lui intendeva un’altra buca ancora più a valle, dove di solito fa delle belle catture. Attraverso un roveto, una zona sbancata che porta alla discarica, poi finalmente una pineta ombrosa dove l’odore di conifere riempie l’aria. Mi siedo sul muschio. Sto bene. Una bella giornata di sole. Le montagne ancora innevate tutto intorno. Pochi pensieri per la testa, il rumore dell’acqua che scorre. Dopo una bella scarpinata arrivo nell’ultima buca che conosco bene perché ci sono stato l’ultima volta. Entrare in acqua mi dà una sensazione di frescura indescrivibile. Gli aggeggi dentro gli stivali tirano un sospiro di sollievo. A perdita d’occhio non si vede alcuna attività superficiale. Mi posiziono in un punto e pesco l’acqua. Si dice così quando si lancia in varie posizioni sperando che qualche pesce prenda la mosca in caccia. Ma ho già capito l’antifona del posto e del giorno. No boll, no catch! Cioè se non bolla non si cattura. Momento lungo di pausa e ad un certo punto vedo la bollata. E’ continua e costante. Vicino alla riva opposta dove si incrociano due fili di corrente. Il vento non aiuta. Provo e riprovo ma non riesco a fare arrivare la mosca nel punto giusto. Il cul de canard poi si vede poco. C’è troppa corrente e si immerge quasi subito. Decido di cambiare. Metto su la gloriosa klinkhammer, un’emergente che ha una visibilità straordinaria ed una tenuta notevole alla corrente. I moschisti più ortodossi mi prendono in giro perché è la mosca che uso l’80 per cento delle volte. Mi dà buoni risultati e comincio sempre con quella. Squadra che vince non si cambia. Se funziona bene, se no cambio. C’è da dire che mi piace di più pescare in acque correnti, in caccia e quindi ci vuole una mosca come quella. Ho addirittura conosciuto l’inventore della stessa. Un certo Hans Van Klinken, olandese ovviamente. E’ stato in occasione del World Tuscany Open ( WTO ) del 2007 a Sansepolcro. Faceva il giudice nella manifestazione di costruzione delle mosche artificiali. Quando ho visto il suo nome sulla targhetta che aveva appeso alla camicia, non ho potuto fare a meno di salutarlo e di dirgli che usavo quasi esclusivamente le sue mosche per pescare. Ha tirato fuori una scatolina dal taschino e me ne ha regalato una fatta da lui. Grande. Ma torniamo all’azione. Insisto tre quarti d’ora sul pezzo. Ormai sono pronto per la seduta psicanalitica. Mi vedo già sdraiato sul lettino. Butto fuori tutto quello che penso. Intanto il vento si è calmato. Faccio un altro lancio e la mosca si infila nel rivolo di corrente giusto. La trota afferra la mosca nervosamente e dopo pochi minuti l’ho in mano. La guardo e la libero subito. E’ piccola, ma che fatica. Intanto Roberto arriva dalla sua buca. Non ha combinato molto. Come va? Qui poca attività, gli rispondo. Si posiziona poco a valle e comincia a lanciare. Io risalgo di un po’. C’è un posto magnifico che parla da solo. Grossi massi, alberi. Se la bestia non è qui non so dove trovarla. Con lo sguardo cerco e poi cerco dei segnali significativi. Faccio qualche lancio e poi vedo sotto una sporgenza di roccia di fronte a me un bagliore. E’ un lancio impossibile. Il vento mi manda la mosca dove vuole lui. Ma tra una folata e l’altra imbrocco l’inclinazione giusta. La mosca lambisce di pochi centimetri il rigiro di corrente dalla parte opposta e il bagliore spezza la superficie dell’acqua in modo fragoroso. Ferro deciso e sento subito che dall’altra parte del filo c’è una buona resistenza. Il pesce si mette in corrente e poi salta fuori in una serie di piroette entusiasmanti. Mi metto ad urlare come un invasato. Mostro, mostro, è un mostro anzi no, sono un mostro. Roberto è basito. Mi fa segno di non esagerare. Dopo qualche bella testata verso il fondo e due tentativi di risalire la corrente la porto vicino e la sguadino. Vado a riva e la slamo delicatamente. Faccio alcune foto e la misuro: 42 cm. di ibrido di marmorata, maschio e con un becco pronunciato. Tenendola dentro al guadino la porto al mio socio che la guarda e ammette che è un bel pezzo, non credeva fosse così bella vista da lontano. Gliela farei mangiare cruda. Ciecato. Non vedendo altri movimenti risalgo il fiume. In uno slargo più a monte vedo 4 trote che bollano con costanza. Ne prendo 3, l’ultima per sfinimento dopo esserci passato sopra con la mosca 200 volte. La quarta non collabora e dopo un po’ decido di tornare verso la macchina. Faccio un cenno all’amico friz e così ci incamminiamo attraverso il bosco e poi la sassaia. Lungo il percorso ci attraversa la strada un grosso ramarro con la coda mozza. Si ferma vicino ad un sasso e così mi avvicino e lo tocco con la punta della canna per metterlo in posa per una foto. Ma oggi non è in vena di fare da modello e si rifugia sotto ad un tronco. Quasi alla fine del percorso Rob, che cammina davanti a me, fa un salto dallo spavento. Dice che c’è un serpente davanti a lui. Ovviamente l’animale si è già defilato. Gli dico che l’ho visto e che è senz’altro una vipera. Mi lancia uno sguardo d’odio, ma d’ora in poi cammina con molta circospezione e quando può segue il percorso in acqua. Arriviamo alla buca corta di questa mattina. In poca acqua una serie di sagome scure sono intente a ghermire gli insetti che in quel momento sono trasportati dalla corrente. Ci alterniamo nei lanci. Io prendo 2 trote, di cui una sui 35 con una livrea molto chiara e Rob dei bei temoli. Con tutto il trambusto dopo un po’ non si vede più niente. Con una battuta da rambo che sarebbe stata condivisa anche da Carlo, che purtroppo non è più con noi, si potrebbe dire che la buca è stata sterilizzata. Ormai la giornata volge al termine. Mi fermo nella buca lunga da dove avevo cominciato le catture questa mattina. Prendo qualche trotella nelle stesse posizioni. Poi risalgo e vedo Rob che si diverte nella buca del sommergibile. Il vento è calato e i pesci sono in buona attività. Provo dove il Boite si butta nel Piave proprio vicino al parcheggio dove abbiamo lasciato la macchina. Non si potrebbe pescare perché è l’inizio del no-kill. Ma tanto faccio due lanci e poi, se lo prendo, libero il pesce. Lì sotto c’è un trambusto indescrivibile. Si vedono pinne di ogni sorta che salgono sotto il pelo dell’acqua. Al primo lancio aggancio una bella trota. Devo costringere il bastardo a farmi un’ultima foto, visto che finora le ho fatte solo a lui. Me la fa, ma solo mentre il pesce mi sguilla tra le mani per tornare nel suo elemento. E’ proprio infido. Mi fa notare che non siamo rimasti fino a buio, come di solito è consueto con alcuni personaggi del club. A volte bisogna schiodarli dalla riva, altrimenti rimangono lì tutta notte. Io sono soddisfatto ed appagato. Un bell’inizio di stagione di pesca con la mosca secca. E poi mi aspettano 300 Km da fare per il ritorno. Ci cambiamo alla macchina mentre comincia a piovere. Io sono fradicio di umidità dentro i waders. Meno male che ho un cambio asciutto. Così va molto meglio. Divoro i 2 panini con lo speck che mi ero portato nella sacca del giubbino da stamattina. Nella foga della giornata mi ero dimenticato di mangiarli. Avevo trangugiato al volo un poket coffee a mezzogiorno e bevuto una bottiglietta di acqua. Andiamo al bar per consegnare il permesso. Sono le 8. Roberto si beve un bicchiere di vino rosso. Io sto a guardare. Prendo un caffè e via. Dopo un centinaio di chilometri il mio amico russa. Alzo il volume della radio ma non c’è niente da fare. Ha già l’occhio da pesce lesso. Chissà se bolla su una bella mosca, magari la rasatina.
Ogni riferimento a cose, fatti o persone non è assolutamente casuale.
Le misure dei pesci sono rilevate con strumenti tarati e certificati SIT.
E’ con la canzone del Piave che si può terminare questo racconto.
Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio;
l’esercito marciava per raggiunger la frontiera
per far contro al nemico una barriera !
Muti passarono quella notte i fanti,
tacere bisognava andare avanti.
S’udiva intanto dalle amate sponde
sommesso e lieve il tripudiar de l’onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero.
Il Piave mormorò: “ Non passa lo straniero! “
Gli faccio un occhio nero,
Lo mando al cimitero.
Questo è ciò che mi è rimasto in mente della filastrocca insegnatami a scuola.
Forse non è proprio fedele all’originale ma io me la ricordo così.
Ed il Piave mormora ancora!
PS: prima di dare in pasto questo racconto ai curiosi lettori, sottoporrò lo stesso al placet della Cia, la mia adorabile sorella alla quale sottraevo di nascosto tutti i libri fin da piccolo, di Stefano, collega, pescatore e uomo di cultura ed a mia figlia Elena, anche lei letterata ed abile artista.
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