Di sergio farina pubblicato il 07/06/18
“Quel ramo del lago di Lecco che volge a mezzogiorno …” o era il lago di Como? Boh proprio non ne ho memoria. I ricordi liceali sono piuttosto fumosi e la letteratura italiana non è mai stata il mio forte, preferivo le materie scientifiche, specialmente quelle legate alla Natura e ai pesci. Alessandro Manzoni mi suona famigliare perché legato al nome di una via o di una piazza più che l’autore del romanzo più famoso e più temuto fra gli studenti. Proprio in via Manzoni abitava una delle mie primissime fiamme, una ragazzina che guarda caso si chiamava Lucia, peccato che io non sia mai stato il suo Renzo, non ricordo il colore dei capelli ma la dimensione delle tette si. A dire il vero forse è stata fortuna, perché, incrociandola qualche anno dopo, il fisico era diventato molto simile a quello di Don Abbondio. Sono questi gli strani pensieri che mi frullano per la testa mentre la station wagon di Luca prende la strada che costeggia il lago. Abbiamo lasciato i 37° della bassa pianura Padana per arrivare in quella che sembra un’altra nazione, tanto è diverso il clima. Il vento è forte, sfacciato, prepotente. Gira intorno alle vetta del Resegone quasi a darsi più spinta per poi piombare sul lago alzando onde di mezzo metro e piegando le chiome degli alberi quasi a volerle strappare dai tronchi. Il rumore delle onde che si infrangono sui muri del lungo lago sono assordanti, e tutto il paesaggio, pur nella sua inconfutabile bellezza, poco ricorda l’atmosfera bucolica e tranquilla dei Promessi Sposi. A dire il vero anche nella più totale ignoranza si farebbe davvero fatica a non capire che il romanzo in questione avesse questa ambientazione. Lo stradario di Lecco lascia pochissimi dubbi: Piazza Manzoni, Via Borromeo, Piazza Padre Cristoforo, Via Innominato, Via del Nibbio, Via Griso, Via Lucia e Via Tramaglino, perché non Via Renzo non so, forse non hanno confidenza per chiamarlo per nome. Abbiamo percorso naturalmente Corso Promessi Sposi per arrivare al lago e anche i nomi dei locali rimarcano la questione: si va dalla pizzeria dei Bravi al ristorante Don Rodrigo per finire con l’osteria Azzeccargarbugli, speriamo non si siano ispirati alla bontà dei piatti o alla preparazione del cuoco. Manca solo il sexy Shop della Monaca di Monza e ci sono davvero tutti. Difficile ignorare perché il buon Alessandro ha scelto proprio questo angolo di Lombardia come location per fare da sfondo alla storia d’amore più conosciuta d’Italia insieme a quelle di Giulietta e Romeo. Personalmente preferisco la prima non fosse altro perché l’autore è autoctono mentre l’altro non lo è, e addirittura da qualche tempo è pure extracomunitario. A noi non interessa tanto il riferimento storico quanto proprio i pesci autoctoni del lago, sperando che, al contrario del romanzo, non ci sia nessun Bravo ad impedire il matrimonio fra noi e le “principesse” che andiamo cercando. Il vento era l’unico avversario davvero temuto, qui c’è sempre ma un conto sono i 3-4 nodi un conto è trovarsi 12 nodi di raffiche dritte in faccia, e le grosse nuvole nere che scivolano da Nord Ovest verso la piana della città lasciano ben poche speranze su quale sarà il tempo della notte imminente. Inoltre il livello del lago è circa 1 mt sopra quello che dovrebbe essere in questa stagione, e le spiagge da dove si dovrebbe pescare sono tutte sotto. Per fortuna la cena porta un po’ di sano ottimismo, quanto meno allo stomaco. Ho girato in lungo e largo l’Italia quando arbitravo, e gran parte dell’Europa per turismo, e mi sono sempre imposto di mangiare le specialità del luogo, non sono di certo quello che cerca il fritto di paranza a Livigno o i canederli a Palermo, così come non cerco il gulasch in Francia o le ostriche in Ungheria. Ci lasciamo consigliare una tagliatellina ai Missoltini, vale a dire degli agoni di lago essiccati e amalgamati in una leggera salsa con pinoli tostati e uva sultanina, e per una volta al diavolo il C&R. Un delizioso chardoney aiuta a non pensare, nel letto, al vento che continua a sferzare le persiane della camera, abbiamo solo 4 ore prima che la sveglia suoni, meglio dormire…La notte non porta consiglio e nemmeno bel tempo. Nella prime lame di luce che si aggrappano da est dietro le montagne il cielo appare sereno ma ancora sferzato da un vento teso e regolare nelle sue raffiche che, proprio come le onde del lago, arrivano ad intervalli ben precisi. La lingua di sassi sfuggita alla furia delle onde ed al livello dell’acqua è larga poco più di un metro e mezzo e lunga una quindicina. Ci sistemiamo a ridosso dell’alto muro di protezione, a valle di alcune barche i cui proprietari hanno ben pensato di alzare e di molto rispetto alla superficie del lago. Luca è su un piccolo promontorio rialzato, ha giusto lo spazio per i piedi e per il pod anche se le onde arrivano spesso a bagnare i piedi in alluminio e il buzz bar posteriore. Io mi appollaio sulla cementata che fissa un grosso tubo di scarico, e credetemi che il verbo “appollaiare” non è usurpato. La piazzola è circa 1 mq e il pod è completamente in acqua. Durante tutte le operazioni di preparazione della postazione e nonostante gli stivali le gli schizzi e le creste delle onde arrivano spesso a bagnare i calzoni sopra il bordo degli stessi. Sappiamo dalle informazioni di chi ci ha preceduto che la morfologia del fondale è molto particolare, con una profonda ed estesa gronda a circa 15 mt da riva, un dente di sassi ricoperto di erbe acquatiche che bisogna assolutamente evitare e dove recuperare i feeder sarebbe una roulette russa. Scegliamo una linea relativamente sgombra a circa 40 mt da riva, in corrispondenza del flusso della corrente che, incanalata sotto la strettoia della prima arcata del ponte, si allarga nuovamente nel lago creando una zona più turbolenta ma più proficua. Ai primi lanci la prima brutta sorpresa. Vuoi per il livello del lago vuoi per il vento, dove normalmente si pesca con 30/40 gr. i nostri 60 gr. volano allegramente, nonostante le generose pance lasciate alla lenza madre. Montiamo la cosa più grossa che abbiamo in borsa, feeder open end da 90 gr. E mould method da 80 gr. Stiamo fermi a malapena. Sappiamo che la popolazione del lago è particolarmente volubile, così come sappiamo che le finestre di attività sono spesso poche e corte ma nessuno dei due era preparato a 5 ore del nulla più assoluto con un solo piccolo cavedano per Luca, 5 ore passate in un fazzoletto di sassi sferzati dalle onde e dagli schizzi di acqua. Ho le orecchie che fischiano, i pantaloni bagnati e il morale sotto le scarpe, anzi gli stivali. Alcuni dei ragazzi di LBF passano per un saluto, Andrea, che conosce il lago molto meglio di noi, non si capacità di una giornata tanto sfigata. L’intuizione, per certi versi geniale, è di Luca che decide di cambiare radicalmente linea di pesca lanciando appena fuori il dente della gronda, manco 5 minuti e un altro cavedano, stavolta di taglia, lo premia. Io lo seguo a ruota, lancio millimetrico a una spanna dal salto di profondità, canna in tiro e attesa. Sto parlando con Andrea, mi lamento in generale e chiudo il discorso con la frase :”Io una giornata tanto sfigata non la ricordo”. La frase mi muore in gola smorzata da Luca che grida :”Sergio la canna, la canna!”. Mi volto verso il pod e vedo distintamente la Dutch Master completamente piegata, la punta tocca quasi l’acqua e il tutto non prende il largo solo per la perfetta stabilità del pod e delle coppette del buz bar posteriore. Ci arrivo alle meglio ma non serve ferrare. Il pesce sta già gironzolando facendo cantare la frizione. La difesa è inequivocabile ma mi sembra troppo pesante per essere una tinca. Combatto a canna completamente alta per evitare l’ostacolo del dente. Si impiglia un paio di volte nell’erba poi alla fine si solleva e viene in superficie. Quando appare, nella totale limpidezza dell’acqua del lago, il cuore si ferma…è grossa da far paura, sembra quasi una carpa ma ha i colori inequivocabili di una tinca, la più grossa che io abbia mai visto. Il primo numero che appare sul display della bilancia è un “3”, il resto ha poca importanza. Ne seguiranno altre, a sottolineare la fortuna e l’intuizione di una scelta che alla fine ci regala una dozzina di principesse dai colori mozzafiato, inframmezzate da alcuni cavedani che, seppur grossi, appaiono alla stregua di umili pesci di disturbo. Chiudiamo la giornata dopo oltre 10 ore di pesca in condizioni veramente difficili, ma alla fine, guardandoci negli occhi, il vento sembra meno “vento”, i pantaloni bagnati non danno poi così fastidio e il rumore della risacca sembra quasi piacevole. Carichiamo la macchina e, prima di girare e lasciare lo spot lo sguardo corre ancora, già nostalgico, verso: “ Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.”
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