Di Massimo Zelli pubblicato il 21/12/16
La prima volta di cui abbia ricordi avevo 18 anni. Più o meno mezza vita fa nel momento in cui scrivo. Era dopo una partita di domenica. Avevo chiuso nel borsone scarpini, maglietta e parastinchi. Era tutto talmente bagnato e sporco che la cosa più intelligente che riuscivo ad immaginare, era quante ne avrei sentite a casa per avergli portato quel cumulo di fango e indumenti.
Ci misi dei minuti ad elaborare una scusa decente. Alla fine decisi che:<< Ad un certo punto era mancata l’acqua al campo sportivo >>. Sembrava una bella scusa. <<Avevo appena fatto in tempo a fare la doccia>>.
<<Fredda per di più >> avrei aggiunto per rendere ancor più realistica la faccenda.
La verità era che mi restavano 4 ore scarse di luce e perdere mezz’ora per pulire tutto era al di fuori di ogni remota possibilità considerata. Pensavo questo mentre aprivo la canna sul fiume proprio dietro al campo sportivo con i capelli ancora bagnati, sotto il cappello di lana. Pensavo inoltre che non accade per caso trovarsi sulla riva di un fiume a dicembre da soli. In altri mesi si, ma non a dicembre. La gente di questi tempi va per i mercatini di Natale la domenica, mangia caldarroste avvolto in una giacca regalando la mancia alla vecchia, porta a passeggio i bambini o la moglie, qualcuno va persino a messa. Non va per campagne, non con quel clima. L’aria, tagliente sul viso, profuma di legna arsa che viene da qualche caminetto: basta quel poco a farti sentire a casa di fronte a quell’acqua gelata, limpida e al tempo stesso non interpretabile.
Ci sono pochi suoni ovattati dalla nebbia e le luci flebili di un giorno che stenta a prendere forza avvolto nella caligine. E’ come accendere il fuoco con la legna umida, vivacchia e si consuma ma non scalda mai davvero.
Il galleggiante mi passava davanti lento e costante. Sempre sulla stessa linea, sempre alla stessa velocità. In quel momento non ne sapevo nemmeno un decimo di quello che vidi negli altri 18 anni che sono passati da allora. Non vi era tuttavia una gran distanza, tra il me di adesso ed il me di quel momento, nella perseveranza con cui davo la caccia a quell’attimo perfetto che passa tra un segno dell’antenna e la ferrata. Non avevo ancora letto Izaac Walton ma già sospettavo che la pesca con le lenza ha più di un affinità con la matematica. Incluso il fatto che non la si può imparare completamente.
Ad ogni modo erano 3 ore oramai che guardavo ammirato quel tappo senza scorgere un segno. Il sarto s’avviava mesto scendendo l’argine già con il metro in mano. Il cappotto era quasi pronto.
Ricordo in maniera precisa che non raccontavo mai a casa quando non prendevo nulla. Preferivo sviare o rispondere che mi ero divertito senza scendere troppo nel dettaglio. Non era perché mi disturbasse granché il fatto che mi giudicassero scarso o poco capace. Quello era l’ultimo dei problemi. Mi dava fortemente fastidio il fatto che avrebbero potuto credere che fossi pazzo. Mi domandavo, se non fossi stato nei miei panni, come avrei giudicato uno che se ne sta al freddo a vedere un tappo di damigiana che gli passa davanti e che rilancia senza soluzione di continuità?
La teoria sulla poca normalità era per altro acuita e sostenuta dal fatto che per me non era affatto frustrante stare al freddo a non prendere nulla. Mi divertivo io. Stavo talmente bene che l’unica cosa che avrei desiderato in aggiunta sarebbe stato prendere qualche pesce quando non prendevo nulla. Non è che però fosse strettamente necessario. Mi bastava starmene solo con la mia canna, i miei silenzi, i miei pensieri e l’impressione di fare qualcosa di complesso e impegnativo. Più tardi mi spiegarono che si chiama passione. Ad ogni modo prendere nulla era una condizione che avevo già digerito come talvolta inevitabile e che comunque sapevo che mi avrebbe permesso di affinare il gesto, un lancio dopo l’altro, una passata dopo l’altra. Credo d’aver imparato un bel po’ da tutto quell’esercizio a vuoto.
Una lama di luce si poggiò sull’acqua alle quattro circa un attimo prima che il sole sparisse: non capì bene subito se il galleggiante fosse affondato o se fosse soltanto scomparso nel riflesso degli ultimi raggi, tirai e basta. Fu un attimo trovarsi con un pesce attaccato ed un sorriso che stentavo a trattenere. Mi rideva l’anima in quel momento.
Liberai quel pesce, un cavedano grasso come un cardinale che venne fuori sguazzando pesantemente e vomitando scie bianche di bigattino mentre lo portavo a riva. L’acqua ambrata e trasparente colorata da quei momenti di lotta è una faccenda che ti si cuce sulla pelle. Non hai bisogno d’altro per stare bene in quel momento. E’ tutto perfetto.
Non tentai nemmeno il secondo pesce. Chiusi la canna così come stava e tornai in dietro tremando per l’adrenalina che nessun gol m’avrebbe dato mai. Altro che partita di calcio. Queste erano le partite che volevo giocare. Accelerai il passo: la caligine infittiva in un lampo da quelle parti e trovarmi a vagare per i successivi 500 metri in un vigneto prima di ritrovare il motorino, quello sì che sarebbe stato da pazzi. Molto più che starsene impalati con una canna in mano a guardare un galleggiante che scorre imperturbabile.
Quando rientrai mio padre mi chiese dove ero stato. Risposi che ero stato a pescare. Imparai in quel momento a dire con la faccia più tosta che avevo nel repertorio:<< non ho preso nulla, ma va più che bene così, fa parte del gioco >>. Notai nel suo sguardo un sorpreso sgomento che poi virò in una risatina. << Mi prendi in giro vero?>>.
<< Assolutamente no, ho passato 3 ore buone a guardar l’acqua nel silenzio più completo>>. Ed era vero ad eccezione degli ultimi 5 minuti.
Prima che la sfida di menti divenisse un duello alla Sergio Leone arrivò mia nonna a chieder conto della borsa. Li sì, dovetti raccontare una gran bella stronzata per ammansirla quel minimo e spiegargli che, in fin dei conti, non era colpa mia se ero fatto così.
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